Ada, la recensione

Ada (Unclenching the Fists) è il secondo lungometraggio della regista russa Kira Kovalenko che prosegue – col collega Kantemir Balagov – la fresca tradizione del cinema neorealistico di stampo caucasico prediligendo la messa in scena di storie quotidiane con persone “qualunque” tra drammi familiari e vite semplici di chi abita in paesi di tradizione operaia sovietica, ora abbandonati al loro destino.

Dopo il primo film diretto da Kira Kovalenko (Sofichka del 2016), anche Ada è ambientato nell’Ossezia del Nord ovvero quella regione del Caucaso ricca di materie prime ma estremamente povera di tutto il resto. Se è vero che tanti minatori lavoravano in zona scavando nel sottosuolo alla ricerca di preziosi minerali, è altrettanto plausibile che la regista Kovalenko desideri scavare metaforicamente nelle profondità umane e sociali dei gruppi familiari che abitano in quei luoghi (molto spesso dimenticati dalle cronache mediatiche mondiali).

Occorre subito premettere, a scanso di equivoci, che Ada venne scelto per rappresentare la cinematografia russa, nella categoria “film internazionali”, agli ultimi premi Oscar. Una grande fiducia venne riposta in questo racconto piuttosto minimalista che prometteva di colpire ed emozionare mentre, in realtà, non centra perfettamente il bersaglio perché non riesce ad empatizzare pienamente con i sentimenti di chi osserva, ma resta, purtroppo, ai bordi della strada.

La protagonista (Ada) è una ragazzina, e rappresenta l’unica donna di una famiglia composta dal padre – iperprotettivo nonché iperpossessivo – e due fratelli, il più grande dei quali non è convivente con loro. Il rapporto tra la giovane donna e il resto della famiglia si mostra fin da subito complesso e sfaccettato. Tra legami forti (a volte soffocanti), amorevoli ma anche piuttosto invadenti, Ada si interroga sul suo futuro. La lotta, tutta interiore, che lacera la ragazzina è tra la scelta di fuggire via e l’opzione di restare tra quelle poco chiare certezze che i “suoi” uomini le garantiscono.

La famiglia non appare solo come rifugio sacro e inviolabile ma anche come giogo che limita la libertà fisica ed emozionale contribuendo ad alimentare frustrazioni e diminuendo la, già bassa, autostima della protagonista. Ada, infatti, prende piena coscienza di tutto ciò e lotta strenuamente per trovare un equilibrio che le permetta di spiccare il volo ma senza mancare di rispetto al padre. La totale assenza della figura materna, a cui raramente si fa cenno, appare come una silenziosa regia forzata, come se la sua incolpevole mancanza avesse contribuito a “costruire” ciò a cui il resto della famiglia sta facendo fronte.

Il film scorre con il classico stile asciutto, scarno, povero e naturale (tipico del cinema d’autore dell’Est Europa) ma non riesce a penetrare pienamente nel tessuto psico-connettivo dei personaggi i quali restano quasi sospesi su invisibili trame che non permettono ai loro comportamenti di dispiegarsi con completezza. La tenerezza con cui ogni interprete (probabilmente non tutti professionisti) recita il proprio ruolo è una caratteristica che regala un piacevole tocco di cinema-verità e il finale inaspettato apre uno spiraglio di ottimismo in contrasto col grigiore di ogni fotogramma precedente.

Marcello Regnani

PRO CONTRO
Racconto intimistico quotidiano che mostra (come raramente accade) elementi interni alle famiglie nascosti spesso da apparenze di rito. Una certa freddezza narrativa che non riesce a “bucare” lo schermo e coinvolge poco l’emotività di chi guarda.
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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