Anna, la recensione

Anna è un film che lascia senza parole nei minuti successivi la sua visione. Dopo averlo finito, si ha come la sensazione che le parole rompano il muro che separa la realtà che noi tutti viviamo, dalla verità delle “fattorie per donne”, poste in Tailandia dove essere femmina significa subire violenze quotidiane. È da qui che parte Charles Olivier Michaud per iniziare con un discorso che di moralistico non ha nulla, perché fortemente legato alla cruda oggettività, alle cose che tutti sappiamo esistere ma che ci ammutoliscono ogni volta che si presentano per quello che effettivamente sono.

La storia è quella di Anna per l’appunto, giornalista canadese d’inchiesta, che dopo aver trovato un paio di contatti, va in Tailandia e sperimenta sulla propria pelle quello che significa fronteggiare la questione della tratta delle schiave. Donne che vengono prelevate dal caos della strada nelle grandi città e incappucciate aspettano la campagna, la loro condanna. E allora il primo fotogramma del lungometraggio deve essere una donna che viene scaricata da un pick-up, e scaraventata a terra. A terra come starebbe ognuna delle bambine di dieci anni, se una volta cresciuta venisse a sapere che è stata proprio la loro madre a venderle come merce e bestiame, ai primi uomini che le hanno offerto del denaro. Il condizionale è d’obbligo quando parliamo di stime sulla durata della vita che non arrivano ai vent’anni.

La violenza dunque, il tema che viene affrontato. Dopo un primo momento di “non so bene che cosa stia succedendo”, il regista riprende il controllo della scena e inizia a presentare diversi episodi di violenza, che non rimangono mai allo stesso livello ma aumentano la loro intensità mano a mano che la proiezione continua. La prima volta che una donna viene picchiata è di fronte ad Anna, nascosta dentro un armadio perché vicina alla strada, davanti alla verità. Ci sono ragazze che sono disposte a parlare e che lo fanno nonostante debbano nascondersi. Allora ecco che Anna va a parlare con una di loro. La scena viene introdotta da un’alta violenza molto comune nel Paese: le battaglie clandestine di thai-boxe. Poi c’è lo scontrarsi con il silenzio dello stupro, della violazione peggiore che una donna possa subire, perché colpisce prima che il corpo, l’animo. Ma il lavoro non si completa: la criminalità sa quello che accade ogni giorno in strada, minuto per minuto; così arriva quando meno ce lo si aspetta e la donna occidentale riceve lo stesso trattamento delle ragazze che voleva capire.

Certo, dal punto di vista della storia appare un po’ strano che una donna canadese giri per le strade thailandesi senza un minimo di protezione, ma noi fingiamo di non aver visto nulla e ci concentriamo sull’essenziale. Qual è la prospettiva di una donna che viene violentata, rispetto a una che non ha mai subito certi trattamenti? Lo si capisce già dallo sguardo: le donne spensierate guardano in avanti, quelle che si sono dovute sottomettere devono guardare in basso. E poi diventa inevitabile guardarsi indietro.

Questo film non ha musiche, ha grida e lamenti, continui, che ci accompagnano quasi stessimo vivendo un incubo. E non a caso, verso la metà, il film passa da essere una sorta di documentario, ad assumere i caratteri del thriller. Questa scelta rovina un po’ la sorpresa facendo capire che nella vicenda qualcosa non torna, ma è l’inizio di un film che non decolla mai. Qui, infatti, si sente il distacco tra il tempo della narrazione e quello dell’azione.

Ora, se il regista avesse colto il momento perché partissero una serie di considerazioni più o meno drammatiche, sarebbe stato un conto, ma nel momento in cui si cambia genere, anche il ritmo della narrazione deve adeguarsi. Non abbiamo neanche il tempo di iniziare a camminare veloci, che siamo costretti a fermarci. Per intenderci. Non motivata la citazione di Arancia Meccanica, ma quando si parla di violenza non è mai fuori luogo.

Altro particolare è il lungo periodo di stallo in cui dovremmo maggiormente empatizzare con la protagonista e assumere la sua prospettiva. Le prospettive sono segnate come il suo volto, noi non abbiamo molto che ci avvicini a lei come dovrebbe essere, proprio per quello che ci viene detto implicitamente dallo stesso regista. Un certo tipo di esperienze o le provi sulla tua pelle, oppure potrai solo avere la percezione minima di quello che queste significano.

Viene comunque apprezzato il tentativo: è importante parlare di certi temi ai giorni d’oggi, dove alle verità scomode sopperiamo parlando di ciò che è più vicino al nostro punto di vista.

Roberto Zagarese

PRO CONTRO
  • Recitazione.
  • Spessore dell’argomento.
  • Poca contestualizzazione.

 

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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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