Atlantique, la recensione

Una delle opere prime più interessanti dell’anno arriva finalmente su Netflix. Si tratta di Atlantique, titolo insignito del Grand Prix Spéciale della Giuria a Cannes e che segna l’esordio alla regia di Mati Diop, attrice francese di origine senegalese e già autrice di alcuni cortometraggi.

Il film è un’estensione del quasi omonimo Atlantiques, un documentario di 16 minuti girato dalla regista nel lontano 2009. L’argomento di fatto è lo stesso: la traversata dell’Atlantico compiuta da alcuni giovani senegalesi. Nel lungometraggio premiato a Cannes questo però non viene mai mostrato né costituisce realmente il fulcro della narrazione, ma piuttosto lo sfondo. La sua presenza è quasi fantasmatica, messa in bocca ad un gruppo di personaggi dall’esistenza spettrale. Questo perché, da un certo punto in poi, la sceneggiatura intreccia il racconto di formazione di una giovane donna, Ada, con una micro-vicenda dai risvolti quasi fantastici. Tuttavia, in entrambi casi la drammaturgia sembra essere un elemento ben presente.

Come a riconnettersi con la sua opera originale, per Atlantique la regista sceglie comunque un taglio di ispirazione documentaristica. Non a caso il film si apre con una sequenza ambientata in un cantiere alla periferia di Dakar, dove alcuni operai si lamentano delle loro condizioni di lavoro, e subito dopo ci vengono mostrate alcune inquadrature della città.

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La scelta delle ambientazioni, e in particolare la valorizzazione del paesaggio come possessore di una propria poetica, è uno dei primi tratti distintivi della voce autoriale di Mati Diop. Certo, qui si potrebbe obiettare che il film non brilli per originalità, ma l’approccio della regista diventa via via sempre più personale.

Quanto alla trama, Atlantique inizia come un delicato romance che diviene presto una storia di emancipazione femminile. I protagonisti sono i giovani e innocenti Ada e Souleiman, che si amano nonostante lei sia promessa a un altro. Una notte, Ada viene raggiunta dalla notizia che Souleiman è scomparso in mare in seguito alla traversata dell’Atlantico e, da quel momento, le loro vite si dividono e prendono una piega diversa: Ada va in sposa al suo promesso rifugiandosi in una vita fatta di agi ma solitaria e senza amore; Souleiman viene accusato di aver appiccato un incendio e si dà alla fuga.

Nella forma Atlantique è un film semplice, fatto perlopiù di idee “d’emergenza” che però dicono molto sul talento della giovane regista.

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La scrittura presenta a tratti echi di Francesco Rosi, soprattutto per quel che concerne la denuncia di determinate realtà, ma pure per alcune svolte narrative e per il senso del ritmo. Sul piano della rappresentazione, la regista sceglie invece come modello il cinema di Jean Rouch, etnologo francese scomparso nel 2004 e noto per i suoi numerosi documentari sull’Africa. In effetti, persino i personaggi vengono pedinati e trattati più come i protagonisti di un documentario che di un lungometraggio di fiction. Sulla carta appaiono abbastanza ordinari, persino anonimi, ma la regista lascia che si esprimano da soli e i due protagonisti diventano appassionanti man mano che il film procede.

La narrazione è in generale emozionante e la mano della Diop è di una sensibilità unica, ma verte tutto sul personaggio di Ada, che di fatto è l’unica plot-line effettivamente approfondita nel film. Gli altri personaggi sono più delle comparse che entrano ed escono nella sua vita: amiche, genitori, marito e perfino lo stesso Souleiman. Paradossalmente sappiamo qualcosa di più sul poliziotto che indaga sull’incendio appiccato da Souleiman che su quest’ultimo, ma si tratta di una scelta non casuale: vengono favoriti esclusivamente i personaggi che incarnano le tematiche che sembrano stare più a cuore alla regista.

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Seguendo le vicende di Ada, il film assume una forma talmente personale da risultare quasi la traduzione in immagini di un suo diario segreto. In effetti, la sequenza finale di Atlantique rafforza questa impressione confermando la vera natura di quanto abbiamo visto. Il problema semmai si pone nei momenti in cui la regista decide di intrecciare la storia di Ada con quella di un personaggio secondario perseguitato dal senso di colpa (che torna in forma di zombie!). Il legame strutturale e tematico tra le due storie è chiaro, ma dimostra una certa incoerenza con l’intento principale del film. Le scelte della regia però, per quanto coraggiose, non risultano mai forzate. Anzi, la Diop sembra avere un perfetto senso della misura e questo le permette di spingersi talvolta oltre.

Pur mostrando una realtà cruda più che altro per i suoi effetti, questa buona opera prima lascia una genuina sensazione di pace in chi guarda, come se la speranza fosse sempre presente, perfino nelle aree più inimmaginabili.

Claudio Rugiero

PRO CONTRO
  • Atlantique è un film emozionante e di una notevole forza autoriale che rivela una regista da tenere d’occhio.
  • La regista ci dimostra come anche la storia più semplice e abusata possa essere sempre interessante, se raccontata con uno sguardo toccante e personale.
  • Gran parte del merito della riuscita dell’opera va alla fotografia di Claire Mathon (Mon roi – Il mio re e Lo sconosciuto del lago), che sembra avere un ottimo feeling con la regia: le sue immagini sono meravigliose e accompagnano perfettamente il percorso interiore di Ada.
  • Le idee originali ci sono, ma per quanto riguarda la scrittura si scivola talvolta nel pasticcio.
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Valutazione: 7.5/10 (su un totale di 2 voti)
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