Autopsy, la recensione

Il genere horror va a periodi, ormai lo abbiamo appurato. Un sali-scendi con momenti fiorenti in cui vengono prodotti film di un certo peso destinati a incidere la storia del cinema, alternati ad altri in cui sembra che questo magnifico genere stia stagnando in attesa di morire definitivamente. L’attuale periodo è proprio quello di stasi che mette in depressione qualsiasi horrorofilo, rappresentato da rare uscite cinematografiche e, in generale, di qualità abbastanza modesta. È per questo che l’uscita di un film come Autopsy, che in originale titola The Autopsy of Jane Doe, ci rende particolarmente euforici, perché abbiamo a che fare con un Signor horror, uno dei quei piccoli grandi film che sappiamo segnerà in qualche modo il genere.

Siamo nella contea di Grantham, in Virginia. Lo Sceriffo Burke arriva sul luogo di una misteriosa scena del crimine in cui non è ben chiara la dinamica degli eventi e dove viene rinvenuto, sotterrato nello scantinato, il cadavere di una ragazza senza identità. Le viene affibbiato il nome generico di Jane Doe e viene portata nello studio del medico legale Tommy Tilden, che esercita privatamente il mestiere insieme al figlio Austin. Un’improvvisa tempesta blocca i due nell’obitorio, così padre e figlio decidono di sfruttare quella permanenza forzata sul luogo di lavoro per eseguire l’autopsia sul copro di Jane Doe, ma cominciano a verificarsi inquietanti eventi che mettono in pericolo la vita di Tommy e Austin.

Il norvegese André Øvredal, che gli esperti ricorderanno per il pregevole mockumentary fanta-horror Troll Hunter (2010), esordisce in un film in lingua inglese cercando di adattarsi alla logica del cinema minimale. Questo vuol dire pochissimi attori e location unica (ovviamente in interni), proprio come detta la legge dei grandi incassi applicati ai piccoli sforzi produttivi. E stando ai risultati, André Øvredal è riuscito nell’intento, poiché Autopsy si sta facendo strada nei migliori festival internazionali riscuotendo l’unanime consenso della critica. Premio speciale della giuria a Sitges, Miglior film al Fantastic Fest di Austin e secondo posto nella sezione Midnight Madness del Toronto International Film Festival… ottimi risultati per un grande film dell’orrore!

Il motivo per cui Autopsy funziona così bene va cercato in due caratteristiche: riesce a trovare una variante originale a una tematica sfruttata di frequente e sa creare una tensione che tiene davvero con il fiato sospeso lo spettatore. Sulla tematica specifica che il film di Øvredal affronta è meglio tacere per non rovinare la sorpresa, ma sappiate che Autopsy sa stupire perché pur non puntando su un vero colpo di scena, non è mai pienamente prevedibile, ovvero sicuramente lo spettatore esperto capirà presto che gli eventi sono destinati a una sorta di twist narrativo, ma la sceneggiatura di Ian Goldberg e Richard Naing sa riservare sorprese.

Il grande merito di Autopsy, come si diceva, sta poi nel saper spaventare. Øvredal è un maestro nel creare la tensione attraverso un accumulo di eventi, sempre più macabri, che deflagrano in scene madri dal sicuro effetto. Il film gioca con il raccapriccio, come l’ambiente dell’obitorio fa presagire, e le scene d’autopsia decisamente realistiche riescono a mettere a dura prova lo stomaco anche dello spettatore più scafato, come da molto non si vedeva al cinema. Ma a lasciare il segno sono i dettagli, elementi come il campanello legato alla caviglia del morto che avrà la stessa funzione del proverbiale “fucile di Checov”, oppure le sagome dei defunti, che spaventano proprio per il loro essere indefinite, lasciando lo spazio alla più oscura immaginazione spettatoriale.

Visto l’esiguo numero dei personaggi, i due protagonisti sono molto ben approfonditi e vederli in pericolo riesce a creare una reale empatia nello spettatore. Merito anche di due bravissimi attori chiamati a prestar loro volto, il primissimo Hannibal Lecter Brian Cox ed Emile Hirsch, ultimamente un po’ scomparso degli schermi, entrambi credibili e visibilmente immedesimati nella storia.

Poi c’è Jane Doe, ovvero Olwen Kelly (Darkmess on the Edge of Town), attorno al cui corpo nudo ruota l’intera vicenda, un corpo perfetto che vedremo martoriato in ogni modo e un’attrice capace di recitare (benissimo) senza fare assolutamente nulla. Sicuramente sentiremo parlare di questa ragazza!

E quindi Autopsy riesce perfettamente nell’intento di spaventare, di suscitare raccapriccio e curiosità per come gli eventi possono evolversi. André Øvredal ha vinto, forse un nuovo boogeyman è nato e non ci sorprenderebbe vedere presto in produzione un sequel.

Viva l’horror di qualità!

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Carico di tensione, riesce davvero a creare inquietudine.
  • Ottimi attori e stupefacente Olwen Kelly nel ruolo del cadavere!
  • Sa essere imprevedibile nella sua studiata prevedibilità.
  • Riesce ad affrontare una risaputa tematica dell’horror con originalità.
  • La seconda parte del film, quando le carte sono ormai scoperte, è meno efficace della prima.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Autopsy, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

One Response to Autopsy, la recensione

  1. Sophie ha detto:

    Ottimo! Sto leggendo molti pareri entuasiasti a proposito di questo film, e non potrei esserne più felice: il genere horror ha bisogno di innovazione, qualità e coraggio più di qualsiasi altra cosa…
    Andrò sicuramente a vederlo, o quantomeno prenoterò il blu-ray dell’edizione italiana non appena possibile!

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