Il Cliente, la recensione

Meditazione esistenziale sul mistero profondo, insondabile delle relazioni umane, il cinema di Asghar Farhadi offre coerenza, lucidità di visione, potenza emotiva, una sapiente messa in scena e interpretazioni credibili e appassionate, sorrette da un’attenzione maniacale per i dettagli intimi della psicologia dei suoi personaggi. Il suo ultimo film, Il Cliente, non fa eccezione.

Ulteriore tassello in un mosaico tra i più interessanti ed autorevoli del cinema contemporaneo, l’opera del 44enne cineasta iraniano miete all’ultimo Cannes l’alloro per la miglior sceneggiatura, segna per il nostro un gradito ritorno in patria dopo la parentesi parigina de Il Passato (2013), e arriva a sei anni di distanza dal trionfo di Una Separazione. In attesa di riempire nuovamente le valigie alla volta della Spagna.

La politica dei sentimenti è in Farhadi politica tout court, la sua visione è un’esplorazione delle tensioni e delle contraddizioni dell’Iran contemporaneo restituita attraverso i gesti, gli sguardi, i silenzi e le parole dei suoi uomini e delle sue donne. Generalmente filmati in coppia. La stessa scelta del regista di non abbandonare il paese natio, di restare a confrontarsi con le maglie della censura e le limitazioni spesso assurdamente incomprensibili – e francamente ingiustificabili – del regime teocratico costituisce una precisa posizione politica. Che però non dimentica di guardare, prima e al di là di tutto, all’uomo e alle sue verità.

 Il Cliente ha la struttura di base che è quella del thriller, una revenge story ben calibrata, e l’impostazione di un dramma psicologico.

Téhéran, oggi. Una città frenetica, in continua evoluzione, sospesa fra passato e presente, incapace di trovare riposo, armonia e stabilità. Emad e Rana, due magnifici Shahab Hosseini e Taraneh Alidoosti, coppia di giovani attori, impegnati nella messa in scena del dramma di Arthur Miller Morte di un commesso viaggiatore, sono costretti ad abbandonare la propria abitazione in conseguenza di urgenti lavori di ristrutturazione. Un amico li aiuta a trovarne una nuova, senza però fare cenno di certe piccolezze riguardanti il passato della precedente inquilina, il che avrà come ripercussione  sgradevolissima  un incidente di cui Rana sarà riluttante protagonista.

Tanto basta perché la fragile miscela di umori sentimenti e complicità, che sul palcoscenico di un teatro e sul set della vita quotidiana sorregge il rapporto fra quest’uomo e questa donna, vada in frantumi. Lui dapprima invita a lasciarsi il passato alle spalle, e poi si fa consumare dal tarlo della vendetta. Lei, a dispetto degli spunti iniziali, si accosta al perdono. L’incontro (per niente fortuito) con il responsabile del fattaccio segna un po’ uno spartiacque.

La messa in scena è elegante e misurata, la metafora teatrale alla lunga si fa ridondante e perde vitalità, e la sensazione è quella di un film che, al giro di boa della sua svolta shock, gira un po’ a vuoto e difetta di brio, riprendendosi però in un finale di rara intensità.

L’evidenza di questi limiti è parziale e assolutamente non pregiudica il piacere della visione di un film denso, stratificato, una riflessione sulla miriade di mattoncini che costituiscono l’anima di una relazione, la sua forza e il suo punto di maggiore vulnerabilità. Un film intelligente, capace di stimolare l’empatia e lo spirito critico dello spettatore in forza delle verità universali che espone, al netto della veste esteriore tipicamente iraniana, e che meriterebbe e forse anche necessiterebbe di assaporare la possibilità di una visione ulteriore.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
La forza degli interpreti. Farhadi è, tra le altre cose, un eccellente regista di attori, dote niente affatto scontata. Le due ore e cinque del film si sentono tutte.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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