Come Play – Gioca con me, la recensione

Diabolici, inquietanti seppur dall’aspetto candido e innocente, spesso spietati o vittime di forze più grandi di loro, sia umane che soprannaturali: queste sono solo alcune delle caratteristiche dei bambini che da decenni imperversano nei film horror e affascinano registi e scrittori del genere per via della loro psiche tanto fragile quanto complessa. Un sodalizio ben consolidato, quello tra i film di paura e i suoi piccoli protagonisti, che per tanti anni si è declinato in maniere diverse, ma sempre ben leggibili: si va da figure dalla mente oscura e capacità ipnotiche (Il Giglio Nero e Il Villaggio dei dannati), fino ad arrivare ai figli del diavolo (Omen per esempio), passando per infanti cannibali e assassini (BroodLa covata malefica di David Cronenberg).

Soluzioni ben codificate, quindi, che nel corso degli anni però hanno risentito della recente corrente autoriale che ha investito l’horror, al seguito della quale giovani registi emergenti hanno palesato nei loro lavori una ricchezza di contenuti notevole e un approccio stilistico raffinato e ricercato. Sono così balzati all’attenzione degli appassionati film nei quali i bambini fungono da motore per storie che raccontano tematiche profonde quali l’elaborazione di un lutto, le conseguenze su di essi del difficile rapporto tra i genitori, il tema del diverso e dell’integrazione.

Tra i diversi titoli legati a questa nuova tendenza va ad aggiungersi Come Play – Gioca con me di Jacob Chase che per il suo secondo film riprende un suo vecchio cortometraggio, dal titolo Larry (potete vederlo qui), per narrare un toccante e al tempo stesso raccapricciante racconto incentrato sull’autismo e sulle difficoltà vissute da un bambino diverso dagli altri per superare un male psicologico duro da sconfiggere e per integrarsi con i suoi coetanei. Un’idea ambiziosa e complessa da sviluppare che però il regista statunitense riesce a portare sullo schermo con risultati più che buoni in quanto il suo battesimo col genere horror si rivela un film ricco di spunti di riflessioni e dalle atmosfere inquietanti e capaci di spaventare a dovere lo spettatore.

Oliver è un bambino affetto da una grave forma di autismo che lo priva della possibilità di parlare e relazionarsi con gli altri e quindi di svolgere una vita sociale come tutti gli altri bimbi della sua età. Reso ancora più vulnerabile dal difficile rapporto tra sua madre e suo padre, il piccolo si rifugia in un microcosmo rappresentato da un tablet tramite il quale guardare il suo unico amico: Spongebob. Gli strumenti tecnologici, però, si trasformano ben presto in una trappola diabolica per Oliver in quanto tramite lo schermo inizia a manifestarsi una creatura mostruosa, di nome Larry, che scatenerà una battaglia tra il disturbo psicologico del piccolo e la volontà di venirne fuori e avere una vita normale.

I tuoi vogliono che tu sia normale, io invece voglio solo essere tuo amico”, con questa frase pronunciata dal “mostro incompreso” Larry si potrebbe riassumere il senso di un film che come epicentro possiede l’enorme conflitto interiore tra il piccolo Oliver, il suo stato psicologico critico e un mondo esterno poco propenso a comprendere il giovane protagonista. Anzi, esattamente il contrario. Chase si dimostra molto sensibile a mettere le dinamiche da film horror al servizio di un dramma che travolge chiunque ne faccia parte: Oliver in prima battuta, i suoi genitori il cui rapporto ne esce sempre più logorato con il progredire del disturbo del figlio e , infine, gli amici “costretti” del bambino che restano coinvolti loro malgrado nel piano malefico di Larry.

Un quadro complesso e stratificato dal punto di vista psicologico nel quale il regista ci immerge fin da subito grazie ad una serie di scelte stilistiche utili a far vivere a chi guarda la storia dal punto di vista di Oliver, con tutte le sue difficoltà comunicative e di espressione dei propri stati d’animo.

COME PLAY

La mano ispirata dell’autore si vede, poi, in uno script, realizzato dallo stesso regista americano, solido e ben congegnato, fatto di dialoghi sempre coerenti e ben calibrati e una particolare attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, quasi tutti con un proprio ruolo ben preciso all’interno dello scacchiere messo in essere. Proprio gli interpreti rappresentano un altro fiore all’occhiello del film, su tutti la rivelazione Azhy Robertson il quale si cala nel migliore dei modi nei panni di un bambino tormentato riuscendo così a trasmettere allo spettatore la battaglia interiore vissuta dal protagonista.

Chase, però, si dimostra abile anche nel gestire la componente horror con scene di tensione efficaci e, soprattutto, un mostro inquietante, realizzato in maniera ibrida tra CGI e metodi tradizionali e sapientemente mostrato progressivamente per aumentare il mistero della sua natura e del suo scopo nella storia.

Eppure qualche difetto c’è e Come Play mostra delle crepe quando si tratta di dare sostanza e un ruolo più deciso e funzionale ai personaggi secondari – il padre, ad esempio, potrebbe dare di più ai fini dello sviluppo dell’intreccio – e quando si tratta di fornire ritmo ad un plot con qualche momento, seppur fisiologico, di stanca e di appiattimento, prontamente superato e riscattato dallo sviluppo della storia.

Come Play, in conclusione, si mostra come un horror interessante, dalle tante chiavi di lettura e tutt’altro che banale.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • Il tema dell’autismo trattato in maniera approfondita e delicata.
  • Atmosfere inquietanti e tensione costante.
  • Cast all’altezza della situazione.
  • I ritmi non sempre sono alti e ben sostenuti.
  • I personaggi secondari non sino sfruttati a pieno.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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