Dallas Buyers Club, la recensione

Quando al cinema si affronta un tema come la malattia, c’è sempre un rischio enorme di cadere nel facile polpettone melodrammatico, con scivoloni nel patetismo che in un batter d’occhio possono letteralmente uccidere l’opera. Questo lo avevano capito, per fare un esempio tra i più recenti, il regista Jonathan Levine e lo sceneggiatore Will Reiser che con il bel film 50/50 erano riusciti a trattare la storia del giovane malato di cancro Joseph Gordon- Levitt con la leggerezza di una commedia. Craig Borten, lo sceneggiatore di Dallas Buyers Club, non prende la strada della risata amara ma riesce allo stesso modo ad evitare qualsiasi tentativo di buttarla in lacrima, di annaspare nel manieristico universo del patetico cinematografico e nel film diretto da Jean-Marc Vallée centra in pieno l’obiettivo.

Dallas Buyers Club è un progetto “vecchio” di almeno vent’anni, il tentativo di raccontare una storia realmente accaduta ai tempi di quando si è svolta. La sceneggiatura del film è balzata di scrivania in scrivania senza essere stata mai realmente presa in considerazione finché, un giorno, è finita tra le mani dell’attore Matthew McConaughey che si è immediatamente innamorato del progetto. Fortemente voluto, dunque, dall’attore che si è ritagliato il ruolo di protagonista, Dallas Buyers Club è arrivato nei cinema, non senza ulteriori difficoltà che hanno fatto si che venisse prodotto con un budget bassissimo (si parla di meno di 5 milioni di dollari). Ma, per il momento, i risultati sembrano premiare il film di Vallée, dal momento che Dallas Buyers Club è passato dall’ottavo Festival Internazionale del Film di Roma dove McConaughey si è aggiudicato il premio come miglior attore e adesso è in lizza per l’ambito Oscar per lo stesso motivo.

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L’appassionante storia di Dallas Buyers Club ci racconta la vera vita di Ron Woodroof, elettricista texano appassionato di rodeo, grande amatore, cocainomane e omofobo convinto. Dopo una serie di malori e un incidente sul lavoro, Ron scopre di avere l’AIDS, che allora, nel 1985, era motivo di vergogna perché legato all’ambiente dell’omosessualità. A Ron vengono dati solo 30 giorni di vita e lui, malgrado il volere dei medici, comincia ad assumere un farmaco in via di sperimentazione, l’AZT. Ma da quel momento in poi, Ron comincerà a condurre una battaglia per sopravvivere, seguendo una terapia fatta di cure alternative e spacciando medicinali illegali dietro lauto compenso, in una sfida aperta alla FDA.

In barba a quella logica contorta che vorrebbe ogni film che tratta l’argomento HIV sentire sul proprio capo il peso di Philadelphia di Jonathan Demme, Dallas Buyers Club segue quell’ottica di sdrammatizzazione che è forse la miglior chiave per rendere un film dall’ingombrante potenziale drammatico assolutamente appassionante e a tratti perfino divertente, grazie alla contaminazione dell’oppressiva vicenda con dei toni brillanti. Molto del merito va alla scelta della storia da raccontare, un’originale vicenda di caparbia e sregolatezza in cui l’eroe del film è un cowboy dalla vita discutibile, dedito al sesso promiscuo, alle droghe e fiero portabandiera di una grezza lotta contro l’omosessualità. La malattia, per forza di cose, cambia Ron Woodroof, in primis nei comportamenti salutari che gli impediscono di bere, drogarsi e far sesso con chiunque (ma a tal proposito sono esemplari le scene in cui Ron non riesce a staccarsi dalla sua bottiglia e quando fa sesso in maniera liberatoria con un’altra malata di AIDS). Ron rimane però un cattivo esempio, diventa un “antieroe” e fa della sua condizione un vantaggio, improvvisandosi spacciatore di medicinali e compiendo una truffa allo Stato che lo metterà in guai seri con la legge. Ron è un “bad guy” fino all’ultimo, un cowboy impenitente che sogna di superare quegli eterni 8 secondi nell’arena a cavalcioni di un toro indomato, un breve lasso di tempo che sembra un’eternità, come le sue aspettative di vita.

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Ma nel film di Vallée c’è anche spazio per una bella storia d’amicizia tra Ron e il travestito Rayon, interpretato da Jared Leto con un tono forse eccessivamente caricaturale. Dunque, forse Woodroof è riuscito a combattere il suo pregiudizio e questo lo dimostra nella scena in cui si ritrova a difendere Rayon da un suo ex collega di lavoro, ma il suo modo di esteriorizzare la sua amicizia è sempre portato a negare il cambiamento, con affettuose prese per i fondelli e nomignoli vari che confermano il suo voler essere semplicemente un bullo.

La prova condotta da Matthew McConaughey è davvero eccezionale, una trasformazione fisica che lo ha portato a perdere ben 23 chili che si unisce a un’interpretazione vistosamente sentita del personaggio. Quasi un one-man-show che aggiunge a un film già di suo ben realizzato e interessante nello svolgersi degli eventi quel quid che ne accresce il valore.

Da vedere.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Riesce ad evadere da qualsiasi manierismo tipico da film sulle malattie terminali.
  • Storia interessante e ben raccontata.
  • Matthew McConaughey bravissimo
  • Qualche minuto in meno, soprattutto nella seconda parte, avrebbe aiutato la scorrevolezza del film.
  • Malgrado la candidatura all’Oscar, il personaggio interpretato da Jared Leto appare caricaturale.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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