Diamanti grezzi, la recensione

Potremmo quasi intitolare questa recensione “la rivincita di Adam Sandler”, in quanto la sua performance ha quasi del miracoloso vista la sua attitudine a scegliere ruoli in commediole modeste e demenziali. Ma non ci dimentichiamo che era già stato selezionato niente meno che da Paul T. Anderson per il suo Ubriaco d’amore, ruolo che per la prima volta portò alla luce le sue grandi doti drammatiche. E i fratelli Safdie fungono allo stesso modo da apripista per tutto il potenziale inespresso di questo attore, che con il giusto coach in panchina riesce a sfoderare prestazioni che per un pelo non vengono prese in considerazione dalla giuria degli Oscar.
Ma Diamanti Grezzi non è solo l’esaltazione di Adam Sandler nel ruolo di un gioielliere ebreo, perché è proprio il film stesso ad essere un concentrato iperrealista di ansia e cinema d’assalto. Il film non funziona per Adam Sandler, ma funziona a prescindere da Adam Sandler.
Il ritmo è costantemente sostenuto e pulsante, porta lo spettatore a vivere in presa diretta le sfortune e le disavventure del povero Howard Ratner. Gli avvenimenti che investono violentemente il gioielliere determinano un microcosmo di speranze subito massacrate a pugni sul naso (letteralmente), urla e minacce in un sentiero minato da ostacoli e violenze senza fine.
Ogni scelta, seppur apparentemente sensata, porta inevitabilmente a catastrofi sempre maggiori. È il caos della vita, dove qualsiasi piano ben congegnato va di pari passo con il suo inevitabile fallimento.
I fratelli Safdie, per cercare di rendere questa velocità delirante percepibile, utilizzano rimandi ad un certo tipo di cinema che evidentemente conoscono benissimo: c’è il Martin Scorsese di Mean Streets, con il Johnny Boy di De Niro che si reincarna nello sbadato gioielliere newyorkese; c’è il cinema di John Cassevetes e dei fratelli Dardenne mixati in unico cocktail cinematografico e centrifugati con musica disco e luci al neon; c’è la caduta fragorosa di Carlito Brigante di depalmiana memoria (citato abbastanza palesemente nel finale) e, per il suo essere in costante equilibrio tra la vittoria e la sconfitta definitiva (la morte), l’epopea filmica di Abel Ferrara (il film si sarebbe potuto intitolare tranquillamente Il cattivo gioielliere).
Si ha sempre la sensazione dalla primissima entrata in scena del protagonista, di cui vediamo prima le sue viscere e poi il volto, di assistere ad una esperienza pre-morte filmata. Tutto è fatidico, predeterminato da un destino che scruta come gli occhioni del mogwai ingioiellato che tiene nel suo negozio. L’interno del corpo come prima apparizione del personaggio principale, come a voler anticipare una futura autopsia a profezia compiuta.
Lo spettatore è sempre lì in attesa, perché non ha mai il minimo dubbio sulla conclusione della vicenda: il precariato in cui si muove il nostro Howard non è solo quello lavorativo o affettivo (i tribolati rapporti con moglie ed amante) ma è proprio una precarietà di natura vitale. Potrebbe morire in una qualsiasi inquadratura immediatamente successiva, ed è solo il caso che devia per centotrentacinque intensissimi minuti il suo correre verso il punto di non ritorno.
Da cardiopalma.
Stefano Tibaldi
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