Die in One Day – Improvvisa o muori, la recensione

Si era già parlato in un articolo precedente riguardo Fino all’inferno dei fratelli Eros e Roberto D’Antona. Ora sbarca nelle sale cinematografiche (il che è un grandissimo successo per ogni film indipendente) il terzo lungometraggio di Eros D’Antona, Die in One Day – Improvvisa o muori (2018), prodotto dalla sua factory Funny Dreamers Productions. Entrambi i registi stanno dimostrando di avere dimestichezza con vari generi, passando fluidamente dall’uno all’altro sia nell’arco temporale, sia durante lo stesso film. Eros D’Antona, dopo il pulp action/comedy Insane e l’horror del filone “case infestate” Haunted, si tuffa nel survival-movie (e anche trap-movie, per utilizzare il termine coniato da Nocturno Cinema per questo filone).

Die in One Day, come gli altri film dei fratelli D’Antona, guarda a un certo tipo di cinema americano: tra Saw e Hostel, il survival/trap-movie è un genere ambientato in spazi chiusi (ma in certi casi anche all’aperto) dove vari personaggi sono in trappola e devono lottare per sopravvivere, un po’ un sotto-filone dello slasher se vogliamo.

Scritto dal regista stesso, Die in One Day ha come protagonista Richard (David White), un uomo separato dalla moglie e disperato per la mancanza della figlia, portata via dalla donna e che vive ai limiti dell’indigenza insieme al violento compagno Vinnie (Mirko D’Antona). Conosce casualmente Sasha (Kateryna Korchynska), la quale gli propone di partecipare con lei a un’audizione segreta per aspiranti attori che offre un ricco premio in denaro al vincitore, proprio quello che gli servirebbe per riprendersi la bambina. Una volta dentro il teatro abbandonato, sede dei provini, si trovano insieme ad altri due concorrenti, ma presto inizia il terrore. Un misterioso regista spiega agli sventurati la vera natura del gioco: ci sono cinque uomini mascherati che li vogliono uccidere, e il loro scopo è sopravvivere – un duello fra cacciatori e prede in cui il sopravvissuto riceverà un premio in denaro. Il ragazzo e la ragazza vengono presto uccisi, mentre tocca a Richard e Sasha cercare di sfuggire alle trappole. Tutto questo porterà alla luce la loro natura più nascosta, oltre a segreti legati al loro passato.

Die in One Day è tante cose: è un autentico trap-movie in stile americano (ricorda un po’ 31 di Rob Zombie), è un gioco di citazioni che la regia fa con lo spettatore, ed è anche un esperimento meta-cinematografico. Il filone “alla Saw” in Italia non è molto prolifico, e i titoli si contano quasi sulle dita della mano: Evil Things, At the End of the Day, Surrounded, True Love, La festa e pochi altri. Die in One Day è il più riuscito: quello che imita meglio i modelli americani e quello in grado di divertire e creare più suspense.

Spavento e divertimento sono i due ingredienti basilari del film e di ogni opera dei D’Antona (persino nel pauroso Haunted, Eros D’Antona ha inserito momenti umoristici). In Die in One Day non c’è in realtà nessun momento comedy, quindi si parla di divertimento in senso lato, quell’aspetto orgogliosamente di intrattenimento che il cinema (o almeno, un certo tipo di cinema) deve avere. L’aspetto ludico risiede nel “quiz” messo in scena dal regista per far cogliere allo spettatore le varie citazioni – grazie anche a maschere e costumi originali e ben curati. L’occhio di chi scrive ha colto almeno queste citazioni esplicite, una o più per ogni maschera: Scarecrow (lo Spaventapasseri) e The Girl da The Strangers, The Boy (una specie di Cupido) da Valentine – Appuntamento con la morte, The Nun (una suona con una maschera fosforescente) da The Conjuring 2 e The Purge 3, Old Lady da 31 di Rob Zombie; ma la parata degli assassini non è finita, ci sono anche Skull (con la maschera di un teschio), Mime (vestito da mimo) e i più anonimi Director (il “regista”) e Hacker, entrambi con una maschera bianca.

Dopo il prologo, la storia inizia omaggiando esplicitamente l’incipit di Hostel 2, con i ricchi e insospettabili scommettitori che ricevono dall’hacker i messaggi sull’inizio delle nuove “audizioni”. Oltre al piacevole richiamo del film di Eli Roth, questo incipit è importante per la scritta che appare sul PC di uno scommettitore, dove leggiamo (in inglese) “Acquista il biglietto! Goditi lo spettacolo!”. Non è una frase messa lì a caso: la regia compie una sorta di esperimento meta-cinematografico rivolgendosi allo spettatore come se si trovasse in un luna park dove può emozionarsi e “vivere” con empatia la vicenda insieme ai protagonisti.

Eros D’Antona, sia nella sceneggiatura sia nella regia, riesce a tenere i tempi giusti, equilibrando la presentazione dei personaggi con le scene di suspense e di sangue e riuscendo così a catalizzare l’attenzione per i circa 80 minuti di durata: questa volta, adeguandosi ai canoni del genere, la regia è più asciutta, evita i virtuosismi alla Sam Raimi tanto cari al regista, sceglie inquadrature più classiche e monta in modo quadrato, alternando piani-sequenza con scene frenetiche. In tal modo, lo spettatore non si stanca mai – la durata è giusta, calibrata in base ai mezzi produttivi e al numero di personaggi, anche se alcuni momenti potevano essere un po’ più dilatati come minutaggio e il film ne avrebbe giovato ulteriormente. L’uso accorto di inquadrature e montaggio permette anche di sopperire al low-budget per quanto riguarda gli effetti speciali, visto che l’elemento gore e splatter ha un ruolo importante, pur non abbondando: inquadrature sui dettagli (la faccia infilzata con un coltello, la gola tagliata, la lama che trapassa l’addome, il collo squarciato, l’ascia che rompe il cranio a Skull) e rapidi stacchi di montaggio creano un’illusione di realtà (buoni gli FX di artigianato manuale, senza i fastidiosi effetti digitali). Le location funzionano molto bene per quanto riguarda gli interni – che occupano poi la maggior parte del film – mentre gli esterni tradiscono un po’ la natura da provincia italiana: il prodotto è a dimensione americana come stile, e visti i nomi e le scritte sui giornali vorrebbe essere ambientato probabilmente negli Stati Uniti, ma alcuni elementi come il cartello Stop e il tipico treno regionale italiano stonano un po’ con il resto, anche se il regista usa alcuni accorgimenti per fare di necessità virtù (vedasi la scritta Police fuori dalla Stazione di Polizia). Ma, come si diceva, il grosso della vicenda si svolge all’interno di questo teatro abbandonato, fra il palco, la platea, scale e stanze vecchie, addobbate con cellophane e manichini; prevalgono i toni scuri ma vediamo anche luci primarie, e tutta la confezione estetica è molto efficace e cinematografica (ottima la fotografia di Ed Rise): un luogo inquietante, quasi gotico, dove la lotta – a distanza ma anche corpo a corpo – fra prede e cacciatori crea un forte coefficiente ansiogeno, come nei migliori trap-movie americani. Contribuisce all’aumento della suspense la colonna sonora di Andrea C. Pinna, una melodia tesissima e sincopata con le note che sembrano rincorrersi (un po’ nello stile di Profondo rosso e Halloween, per intenderci).

Notevole, infine, il cast: l’espressivo David White, uno fra i volti più noti del cinema indie italiano, Kateryna Korchynska, splendida scream-queen che abbiamo visto in The Wicked Gift e Fino all’inferno e qui al suo debutto da protagonista, Mirko D’Antona, immancabile villain nei film dei due fratelli registi, oltre ai ruoli minori di Cinzia Susino e Daniela Ladisa.

Die in One Day è basato dunque su pochi protagonisti, e sull’evoluzione (anzi, involuzione) dei loro personaggi, da vittime a carnefici, in una sorta di homo homini lupus. Questo grazie anche a una sceneggiatura mai banale, che aggiunge alla vicenda classica vari colpi di scena. Rimane purtroppo il vetusto problema dell’indie italiano, cioè il doppiaggio un po’ da telefilm, anche se migliore rispetto a tanti altri casi; inoltre alcuni dialoghi sono un po’ sempliciotti, ma in fondo anche i più popolari slasher americani non brillano per l’originalità dei dialoghi.

Davide Comotti

PRO CONTRO
  • Confezione estetica pregevole.
  • Divertimento nel cogliere le citazioni.
  • Imitazione quasi perfetta dei modelli americani.
  • La regia riesce a creare la giusta suspense.
  • Non ci si annoia mai.
  • Doppiaggio non così cinematografico come la fotografia.
  • Alcune situazioni risolte in modo troppo veloce.
  • Presenza di qualche dialogo banale.
  • Alcune scene in esterno tradiscono la natura italiana delle location e stridono un po’ con l’ambientazione diegetica americana.
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