Nido di vipere (Beasts Clawing at Straws), la recensione

Quante volte abbiamo visto un film che gira attorno a una valigetta piena di fortune e che fa incrociare le vicende di diversi malviventi? Tante, troppe, direte voi. In fin dei conti Quentin Tarantino ci ha vinto un Oscar e Guy Ritchie ci ha costruito una carriera, prima che le majors lo fagocitassero fino all’annullamento. Eppure qualcuno riesce ancora a tirar fuori qualcosa di molto buono da un soggetto che, sulla carta, potrebbe apparire un tabernacolo di cliché pulp/crime. È quello che accade nel sudcoreano Beasts Clawing at Straws, tratto da un romanzo del giallista giapponese Sone Keisuke, presentato in premiere italiana al Far East Film Festival 2020 e in uscita il 15 settembre 2022 al cinema con il titolo Nido di vipere, distribuito da Officine Ubu.

Tutto inizia con una borsa Louis-Vuitton piena di denaro abbandonata nell’armadietto degli spogliatoi di una sauna di Pyeongtaek e ritrovata, a fine turno, dall’uomo che si occupa della manutenzione della struttura. Attenzione però, questo non è esattamente l’inizio della storia che invece prosegue in maniera episodica incastrando piani temporali differenti, ognuno affidato a un diverso personaggio in qualche modo collegato a quell’evento.

Strutturato in una decina di capitoli, ognuno caratterizzato da un titolo e da un misterioso tratto grafico di cui scopriremo il senso solo alla fine, Beasts Clawing at Straws porta in scena storie di ordinaria criminalità e di straordinaria miseria (economica o morale) che si incastrano come in un puzzle grottesco e violento. Passiamo da un funzionario doganale corrotto e dedito alle truffe a una ragazza che lavora come prostituta ed è vittima di un marito violento, ma c’è anche un ometto in crisi famigliare ed economica, un immigrato clandestino cinese, un usuraio accompagnato da un energumeno muto e una maitresse senza scrupoli. Storie che non presentano particolari tratti di originalità ma che costruiscono un insieme avvincente e assolutamente ben costruito capace anche si riservare diverse sorprese.

Colpisce in positivo il lavoro del coreano Kim Yong-hoon, qui al suo esordio, che scrive e dirige il film mostrando sia un particolare talento nel costruire gli intrecci nel modo più cinematografico possibile, sia nel gestire un racconto complesso e scomposto rendendolo semplice e ordinato. Non manca un ritmo particolarmente incalzante e un’attenzione particolare al cast, su cui spiccano il divo Jung Woo-sung, che interpreta lo sfortunato funzionario doganale, e soprattutto Jeon Do-yeon, col tatuaggio di uno squalo sulla coscia, che interpreta una donna tanto affascinate quanto crudele, una singolare femme fatale vero elemento cult dell’intero film.

Dall’estetica e dal linguaggio particolarmente internazionale, come ormai è un po’ tutto il cinema sudcoreano, Beasts Clawing at Straws lascia il segno nell’ormai logoro panorama crime e graffia con uno dei finali più appaganti visti nel genere in questi ultimi tempi.

Il film di Kim Young-hoon si è aggiudicato il Gelso Bianco con menzione d’onore nell’ambito del 22° Far East Film Festival e il Premio Speciale della Giuria al Festival di Rotterdam.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una trama intricata raccontata in maniera semplice e ordinata.
  • Personaggi pittoreschi molto ben scritti.
  • Ritmo notevole.
  • Jeon Do-yean e la sua Yeon-hee.
  • Se si è un po’ stufi del crime/pulp forse è meglio girare alla larga.
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