Free State of Jones, la recensione

A meno d’un mese dall’arrivo del magico ricercatore di animali fantastici Scamander, un altro Newt fa capolino nelle sale cinematografiche nostrane (dopo un veloce passaggio all’ultimo Torino Film Festival) con Free State of Jones. Ad interpretarlo è il volto sporco e scavato di un Matthew McConaughey che sempre più ci sta abituando a serissimi ruoli drammatici facendo quasi evaporare un passato fatto di leggere commediole sentimentali e che qui indossa i panni di quello un eroe della Storia americana. Il suo Newt fa Knight di cognome e di fatto, data la naturale dedizione che per tutta la vita ha contraddistinto la sua instancabile lotta contro il profondo razzismo che permeava (e che ancora oggi è lontano dall’essere debellato) il luogo che lui chiamava casa.

1862, Mississippi. Guerra civile americana. Newt Knight, un semplice contadino arruolato con mansioni da infermiere, è stanco di assistere continuamente agli orrori bellici e diserta facendo ritorno a casa nella contea di Jones. Non passa molto tempo che i soldati iniziano a dargli la caccia. Nascondendosi in una palude, Newt incontra un gruppo di schiavi fuggiti dai loro padroni e, con il loro aiuto e quello di altri agricoltori della zona, organizza una rivolta contro i soldati che tengono in scacco e costringono alla fame la contea.

THE FREE STATE OF JONES

Newt era un fabbro, lo dice lui stesso a un certo punto del film, e il suo passato potrebbe far pensare a lui come a un duro uomo temprato dalle mille prove susseguitesi lungo il corso della vita (di cui, inevitabilmente, la guerra civile rappresenta il culmine). Il contadino del Mississippi ci appare però non tanto come ferro forgiato da mille colpi di martello, ma piuttosto come il ruvido e robusto legno degli enormi alberi, assoluti protagonisti della scenografia naturale dell’intera pellicola. Non un gelido pezzo di ferro ma viva corteccia che assorbe sole, pioggia, fumi, odori dell’ambiente in cui vive, e se provocato divampa con impetuose fiamme guizzanti. E’ ai piedi di due maestosi alberi che Newt, dando l’ultimo saluto a due persone care, comprende quale sia realmente il suo dovere. Ed è sotto la marea di alberi che sovrasta la palude in cui trova rifugio, il luogo in cui trova amici e persone fidate con cui costruire una nuova pacifica comunità basata su uguaglianza e rispetto reciproco. Come l’albero nella bandiera confederata del Mississippi, Newt diventa per loro un simbolo di coraggio, forza e fermezza morale. A tal punto che, anche quando la situazione diverrà insostenibile, rifiuterà categoricamente di lasciare il paese avendo messo da tempo salde radici in quel luogo.

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Un addio alla sua terra che parrebbe quasi obbligato, dato che la guerra civile nel frattempo finisce, ma non si conclude certo quella per cui combatte realmente Newt. Anche se il governo degli Stati Uniti mette al bando la segregazione razziale, questo non serve certo a fermare gli stati del sud che, pur di non abbandonare le loro “ricchezze umane”, creano leggi su misura tendenti a imitare in tutto e per tutto la schiavitù. La guerra finisce ma nello stesso momento in cui Newt ne viene a conoscenza comprende come in realtà sia appena iniziata.

Ed è questo aspetto ciò che in qualche modo fa prendere le distanze a Free State of Jones dalla costruzione “classica” delle precedenti fatiche filmiche sul medesimo tema. Ogni volta che ci pare d’essere giunti al termine della pellicola, quando le cose in qualche modo sembrano aggiustarsi e un mezzo sorriso compare sul volto dei personaggi, ecco che qualcosa accade e fa ripartire tutto da capo senza darci tregua. Quando tutto sembra concluso e lo schermo pare pronto ai titoli di coda, nuove ombre oscurano il naturale procedere della storia.

THE FREE STATE OF JONES

Nonostante questo cambio di rotta rispetto alla più tradizionale narrazione sia apprezzato, una svolta inconsueta riguardo al naturale cammino narrativo può, come in questo caso, portare a strade non facilmente praticabili.

Il grande rammarico della pellicola di Gary Ross (già regista e sceneggiatore di Seabiscuit e del primo Hunger Games) è che, tentando di informare, coinvolgere lo spettatore e denunciare allo stesso tempo uno dei peggiori crimini umani, finisce per non acquisire mai un’unica salda identità. La netta impressione che, a circa un’ora e mezza di minutaggio, il film sia giunto al suo logico finale è molta e non fa altro che amplificare la sensazione di lunga coda conclusiva (di quasi un’altra ora) che attende l’ignaro spettatore. Tutto ciò per cui il protagonista, e con lui i suoi alleati, aveva tanto combattuto gli viene sottratto quasi immediatamente e l’aspetto didascalico del film pian piano esplode in spiegazioni visuali sempre più fastidiosamente presenti, lasciando spazio a uno stile didattico che trasforma l’intera operazione in una grande lezione di storia americana.

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Anche le scene ambientate in un tribunale 85 anni dopo i fatti narrati (in cui il nipote di Newt, che per 1/8 è nero e nello Stato del Mississippi è il minimo per essere ritenuto tale, viene accusato di aver infranto la legge sposando una donna bianca) da una parte sottolineano come la guerra combattuta da Newt non sia ancora terminata, anzi la proiettano in avanti con una spaventosa sentenza. Dall’altra, però, la parentesi da legal thriller risulta una macchia nel racconto, quasi una presa in giro, un solo e unico appiglio narrativo per tenere gli spettatori forzatamente ancorati allo schermo per la lunga coda finale. Se a livello concettuale quest’ultima stacca il film, dai soliti canoni di crisi e rinascita del protagonista, può offrire qualcosa di diverso e in qualche modo inaspettato, sul piano della pura storia risulta troppo monotona, didascalica e a tratti quasi forzata.

Matteo Pioppi

PRO CONTRO
Il volto da divo di Matthew McConaughey è perfetto per la parte. Riesce a reggere l’intero film senza però risultare sempre e fastidiosamente in primo piano. Un leader più che un capo. Il ritmo mal dosato, soprattutto negli ultimi 50 minuti (di 2 ore e 20), che appaiono come una lunga e interminabile coda condita di lezioni storiche con didascalie annesse.
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Valutazione: 5.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +1 (da 1 voto)
Free State of Jones, la recensione, 5.0 out of 10 based on 1 rating

One Response to Free State of Jones, la recensione

  1. Simone ha detto:

    Credo che questo articolo abbia colto nel segno l’anima del film. 2 ore e venti visivamente e storicamente molto appassionanti ma, al tempo stesso, di una lentezza quasi sforzata.

    Tuttavia, credo che il ritmo seguito dalla pellicola sia stato fondamentale per raccontare tale periodo storico e i drammi annessi.

    Voto 7 perchè qualcosa di diverso dalle solite sfumature “pop” rappresentanti il tema in questione.

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    Valutazione: 5.0/5 (su un totale di 1 voto)
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