Giù le mani dalle nostre figlie, la recensione

Da molti anni le commedie americane parlano di ragazzi super eccitati smaniosi di perdere la propria verginità in situazioni folli e ai confini della realtà. La gang di American Pie, il trio scalcagnato di Superbad, gli amici dell’ormai datato Porky’s, rappresentano l’immaginario comune nella narrazione del coming-of-age, che ha sempre visto un percorso maschile tra vizi e stravizi per il ludibrio del pubblico senza filtri.
Il debutto alla regia di Kay Cannon, già sceneggiatrice di Pitch Perfect, combina invece la schiettezza dei racconti delle ragazze di oggi con l’ilarità propria di Seth Rogen e Evan Goldberg (qui in vesti di produttori, quasi in una continuità ideale con il genere), offrendo una visione aggiornata di una storia vista e rivista come quella di un patto segreto tra amici nella sera della prom night. La regista parte da questa premessa per dare spazio a una narrazione femminile che si intrecci con una linea narrativa riservata agli adulti del caso, imbastendo il tutto con humour pungente e volgare, probabilmente l’unico adatto al momento storico e funzionale a farci capire di cosa si stia davvero parlando.
Lisa (Leslie Mann), Mitchell (John Cena) e Hunter (Ike Barinholtz) sono gli imbarazzanti genitori che cercheranno di mettere i bastoni tra le ruote rispettivamente a Julia (Kathryn Newton), Kayla (Geraldine Viswanathan) e Sam (Gideon Adlon), amiche fin dalle scuole materne e decise più che mai a trascorrere una notte indimenticabile prima di andare al college. I tre genitori seguono in maniera goffa le ragazze nella loro serata, dando vita ad una serie di gag demenziali simpatiche (vedi il gioco sessuale che vede protagonisti Gina Gershon e Gary Cole, genitori del fidanzato di Julie), ma ciò che permette al film di funzionare non è la storia ampiamente prevedibile, ma il focus su ciò che ispira le azioni del trio di genitori, che permette di esplorare un’ambivalenza sociale radicata nel tempo: perché si possono celebrare dei ragazzi che perdono la verginità, ma bisogna proteggere dall’eventualità che questo accada?
Questa impasse viene messa accuratamente in discussione prima dalla moglie di Mitchell, Marcie (Sarayu Blue), e successivamente sul finire del terzo atto in un dialogo estremamente significativo tra lo stesso Mitchell e Kayla. Quando lei chiede cosa ci sia di tremendo nel decidere di avere un rapporto sessuale, Mitchell non riesce a trovare una motivazione valida. La società vuole proteggere le ragazze a tutti i costi dall’attività in cui spesso sono meno protette culturalmente, la stessa società che però chiede alle donne di essere calme e misurate mentre ne offre un’immagine totalmente diversa e iper-sessualizzata.
È un discorso tremendamente serio, ma la pillola viene indorata nei dialoghi, nella costruzione dei personaggi e nelle onnipresenti lacrime di un John Cena perfettamente a suo agio nonostante la mole di muscoli per cui è principalmente noto, isterico come l’intera costruzione del film. In quanto donna e in quanto madre, la Cannon esplora ogni possibile sviluppo di un tema già noto, offrendoci campo e controcampo di giovani ragazze, madri single, padri eccessivamente affettuosi e ragazzi volutamente insipidi e inetti.
Potrebbe sembrare che Giù le mani dalle nostre figlie rappresenti l’ennesima e inutile variazione sul tema, ma nasconde nemmeno troppo velatamente una presa di posizione: c’è un sommerso che ha bisogno di venire a galla. Il risultato non sarà una pietra miliare del cinema, ma film come questo invadono le sale, le librerie degli OTT e gli schermi più disparati, diventando anche parametri e termometri sociali. Meglio allora che contengano un punto di vista nuovo in una storia già vista, costringendoci a fare i conti con quella che è davvero la realtà complessiva delle cose.
Andrea De Vinco
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