Happy End, la recensione
Cinque anni dopo l’indimenticabile Amour, il settantacinquenne Michael Haneke torna alla regia con Happy End, ritratto paradossalmente preciso di una realtà drammatica e sfuggente.
Siamo a Calais, nel Nord della Francia: mentre i rifugiati vagano per le strade in attesa di attraversare l’Eurotunnel, la ricca famiglia Laurent vive cullandosi tra bugie, ambizioni e frustrazione.
Il capo famiglia (Jean-Louis Trintignant) ha fondato un’azienda che si trova in serie difficoltà a causa di un brutto incidente in un cantiere che ha ridotto in fin di vita un operaio immigrato. Al tempo stesso, l’arrivo in casa della piccola e inquietante Eve (Fantine Harduin), affidata al padre Thomas (Mathieu Kassovitz) dopo il ricovero in ospedale delle madre, complica le cose tra l’uomo e la sua nuova mogliettina…
Happy End presenta una complessa impalcatura narrativa, pronta a trasformarsi in una stimolante sfida interpretativa per lo spettatore, ricca di frammenti da ricucire insieme e di orrori ansiosi di venire a galla. Il fatto che la sceneggiatura sia per lo più caratterizzata da ellissi temporali accresce il fascinoso mistero di quest’opera graffiante e persino sconvolgente. Uno spazio particolare, analogamente a quanto accadeva ne Il Nastro Bianco, è riservato al ruolo della tecnologia (la pellicola, non a caso, si apre attraverso lo schermo di uno smartphone ‘pilotato’ da mani invisibili), grazie alla quale personaggi vengono scrutati, spiati o esaminati da diversi punti di vista e distanze (letteralmente e metaforicamente).
Parlando degli interpreti, Isabelle Huppert, in un ruolo che ben poco valorizza la sua meravigliosa personalità artistica, riesce comunque a farsi notare e ricordare. Monumentale è Trintignant: un nonno che si crogiola in una crudele apatia magnetica e raggelante. La giovane e promettente Fantine Harduin, dal canto suo, dà apprezzabile spessore a un personaggio diabolico e stratificato fino al tragico epilogo.
Complessivamente Haneke fa centro, lasciando senza remore che il suo spettatore se la cavi come può in una giungla di rabbia e repressione. Il regista si conferma un narratore votato al cinismo e alla cruda realtà, ma non rinuncia neanche a sbalordire, e ci riesce alla perfezione.
Chiara Carnà
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