His House, la recensione

Prima che il maledetto Coronavirus cominciasse a stravolgere le nostre vite e, soprattutto, a monopolizzare i media di ogni tipo, l’argomento attorno al quale l’opinione pubblica maggiormente si divideva era senza dubbio quello dell’immigrazione. Tra chi era a favore dell’integrazione fra culture diverse e chi, al contrario, vedeva in esso un ostacolo allo sviluppo economico, il dibattito politico si era fatto sempre più aspro e conflittuale. Uno scontro che, tuttavia, non considerava che dietro i tanti migranti vi sono storie di uomini e donne con tante sofferenze e perdite dolorose alle spalle.

Poteva il cinema horror restare insensibile alla tematica razziale? Assolutamente no. Negli ultimi anni, infatti, l’ala autoriale e impegnata del genere ha affrontato l’argomento con cura e gusto, dando vita ad alcuni prodotti di ottima fattura e ricchi di significati sociali e culturali, come dimostrano i film di Jordan Peele, Us e Get Out nei quali il riscatto e la discriminazione venivano inquadrati dal punto di vista degli afro americani.

Sulla scia del successo del regista americano va ad incanalarsi His House, produzione britannica affidata all’esordiente Remi Weekes il quale, dopo una breve attività di montatore e autore di cortometraggi, al suo primo lungometraggio si cimenta subito con un film ambizioso e complesso, ma che dimostra tutta la voglia di osare del giovane talento inglese. Ottime intenzioni che vengono anche supportate da una regia ben architettata e dalle idee chiare e uno script solido e senza sbavature che caratterizzano quest’opera, distribuita dalla piattaforma Netflix, il cui grande punto di forza è quello di far riflettere sulla tematica dell’immigrazione e dell’integrazione, fondendola con una messa in scena da puro film dell’orrore. Un’opera riflessiva, sentita e paurosa allo stesso tempo, che resta scolpita sia nell’anima che negli occhi di uno spettatore tramortito e spaventato da ogni fotogramma che gli passa davanti agli occhi.

His House

Bol e Rial sono una giovane coppia del Sudan, giunti in Inghilterra dopo un viaggio dalle mille peripezie e caratterizzato dalla perdita della figlia piccola, affogata in mare. Dopo un lungo travagliare tra i tempi elefanteschi della burocrazia e la diffidenza dei giudici, i due riescono a ottenere una casa popolare che, seppur fatiscente e sporca, rappresenta per loro un grande traguardo. L’entusiasmo, però, ben presto lascerà spazio al terrore provocato da inquietanti presenze che popolano le quattro mura dell’abitazione.

Il grande vantaggio che offre l’horror è quello di poter raccontare tematiche scottanti, come in questo caso l’immigrazione, senza ricorrere a quella retorica di fondo che rende le trasposizioni di tali argomenti il più delle volte pedanti, pretenziose e intrise di sentimentalismi inutili, cosa che difficilmente accade quando si fa un uso intelligente ed evocativo delle immagini.

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 Weekes, dunque, non fa altro che sfruttare questo enorme credito che offre il cinema di genere e la sua bravura consiste nel conferire al suo film il giusto equilibrio tra le diverse anime e componenti che lo formano. His House, infatti, riesce a offrire un emozionante, sentito e accorato ritratto dello stato d’animo di una coppia di migranti mirabilmente tratteggiata e caratterizzata nei suoi risvolti psicologici, nella reazione ad una perdita incolmabile, come quella di una figlia, e nella diversa attitudine di marito e moglie ad integrarsi al contesto: se da un lato Bol sembra ambientarsi al meglio, al punto da vestirsi anche alla maniera occidentale, dall’altra parte Rial è più restia a compiere questo passo e, al contrario, resta ancorata al passato e alla sua Africa. Un’analisi introspettiva netta e approfondita portata avanti anche grazie alle ottime interpretazioni di Sope Dirisu e Wunmi Mosaku, molto ben calati nella parte e bravi a dare forza a personaggi complessi e alle prese con spettri che altri non sono che il passato che ritorna e le proprie coscienze ancora irrisolte.

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Weekes, tuttavia, non dimentica l’idea iniziale di girare un film horror e infarcisce questa struttura da dramma sociale con tante sequenze di tensione ben riuscite, atmosfere inquietanti, demoni dal look spaventoso e ben curato e un impianto visivo nel complesso molto adatto ed efficace a rendere il conflitto fra passato e presente, tra vita e morte e tra la cultura africana e quella europea, spaccatura molto netta finanche nel modo di elaborare un lutto.

His House, in conclusione, è un horror sociale ricco di argomenti ma anche capace di spaventare con i mezzi tradizionali del cinema di paura; consigliato a chi vuole guardare qualcosa che vada oltre il solito prodotto commerciale di genere.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • Grande attenzione ai personaggi e il loro risvolto caratteriale all’interno della storia.
  • Giusto equilibrio tra toni da dramma sociale e atmosfere horror.
  • La tensione è ben gestita.
  • In alcuni punti delle scene horror c’è qualche ingenuità di troppo, ma poca roba.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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