Horror Puppet, la recensione
Una comitiva di ragazzi in viaggio di piacere finisce presto a dover fare i conti con i disagi causati da uno pneumatico bucato. Uno dei cinque si allontana dal gruppo per andare a cercare aiuto, ma non fa più ritorno. Al passare delle ore, i rimanenti quattro decidono di andarlo a cercare ma si imbattono nel signor Slausen, un gentile uomo di mezz’età che li invita a passare la notte nella sua abitazione, un tempo museo di manichini. Slausen però non vive da solo, con lui c’è suo fratello, uno psicopatico ossessionato dai pupazzi che arredano casa, tanto da usare i turisti come “modelli” per le sue creazioni.
Oggi lo sappiamo che in un film horror essere giovane, avvenente e turista può attirare i peggiori mostri, psicopatici, serial killer e creature infernali; se poi capita di ritrovarsi con l’auto in panne…beh, a quel punto si è davvero spacciati. Ma lo sapevano anche nel 1979, anno in cui la casa di produzione di Charles Band diede alla luce Horror Puppet (Tourist Trap in originale), sfizioso b-movie che deve più del simbolico “caffè” a Non aprite quella porta di Tobe Hooper.
Horror Puppet mette le carte in chiaro fin da subito con una classica situazione da survival horror, stavolta curiosamente contaminato col soprannaturale. Personaggi ed evoluzione della trama sono tra le cose più abusate nel cinema horror, ma allora, nel 1979, non c’era ancora l’inflazione da survival a cui siamo abituati oggi, perciò, pagato il debito al cinema di Tobe Hooper, è ravvisabile anche un certo interesse per una singolare esplorazione del mito della famiglia idealizzata. Horror Puppet presenta una realtà in cui la famiglia è assente, sia nell’ambito delle vittime che in quello dei carnefici: il signor Slausen è stato privato della sua consorte e intrattiene un rapporto di schizofrenica complicità/rivalità con lo psicotico fratello tanto che l’assenza di affetto e di calore umano lo hanno portato ad idealizzare una sua famiglia fatta di legno e plastica, manichini (uno ha le fattezze della moglie defunta) e maschere umane che lo illudano di “esistere”.
Naturalmente, come quasi sempre accade per questo genere di film, è proprio il boogeyman a fare da mattatore, rubando completamente la scena ai giovani protagonisti. In questo caso il compito di impersonare il misterioso e ambiguo signor Slausen è stato affidato a Chuck Connors, un grande caratterista che tra gli anni ’50 e ’60 fu impegnato in molti western e in serie televisive di culto, qui davvero ottimo nell’ambiguo ruolo.
Il regista David Schmoeller, autore anche della sceneggiatura insieme a J. Larry Carroll, se la cava egregiamente con questo suo primo lungometraggio e anticipa in parte le tematiche che affronterà nei suoi successivi Striscia ragazza, striscia e soprattutto Puppet Master – Il burattinaio. Molto buona la fotografia di Nicholas Josef von Sternberg.
Ciò che convince poco è il look dello psicopatico, davvero troppo simile al Letherface di Non aprite quella porta, e lascia un po’ dubbiosi anche la scelta di dotarlo di poteri telecinetici che appaiono quasi intrusi nella vicenda. Nota di demerito anche al reparto gore e violenza, poco presente anche se non avrebbe di certo stonato in un film del genere.
In generale comunque Horror Puppet è un film che vale la pena di recuperare, invecchiato molto bene e oggi più affascinate di quanto lo fosse un tempo.
Da notare la grande somiglianza della versione del 2005 de La maschera di cera con questo film. Coincidenza?
Roberto Giacomelli
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