Jason Bourne, la recensione

Dopo un’assenza di ben nove anni, Matt Damon torna a indossare i panni di Jason Bourne, il sicario professionista creato dallo scrittore Robert Ludlum. E come è accaduto per personaggi iconici come Rocky Balboa o John Rambo, anche Jason Bourne si guadagna un film che ha per titolo il suo nome. Semplice. Secco. Garanzia di riconoscibilità e di successo.

Ma in questa lunga assenza dagli schermi, giustificata da un capitolo realmente conclusivo – ovvero The Bourne Ultimatum: Il giorno dello Sciacallo – che dava un senso di chiusura a una ideale trilogia, il franchise lanciato al cinema da Doug Liman nel 2002 aveva avuto un quarto capitolo, The Bourne Legacy, un episodio spurio con protagonista l’agente Aaron Cross, interpretato da Jeremy Renner. Questo spin-off non è stato accolto benissimo da pubblico e critica, così, per riabilitare la saga, la Universal Pictures ha deciso di riportare in scena il personaggio principale, malgrado sia Matt Damon che il regista Paul Greengrass avevano manifestato disinteresse per un ulteriore progetto legato al brand.

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La coerenza spesso non risiede a Hollywood e ognuno torna rispettivamente al proprio posto in Jason Bourne. Ma il quinto film della saga è piuttosto sottotono malgrado le premesse facessero presagire risultati ben più pregnanti, e così ogni cosa è sacrificata all’azione in uno zibaldone che unisce un pesante déjà-vu a confusionari quadri picassiani fatti di inseguimenti ed esplosioni.

L’ex agente della CIA Nicky Parsons riesce a individuare un dato fondamentale del passato del suo ex collega Jason Bourne, ma la sua infiltrazione nei database della CIA attira l’attenzione di una divisone dell’Intelligence che sta progettando un programma per il controllo delle masse. Messasi in contatto con Jason, che si era dato alla macchia dopo aver ricostruito la sua identità, Nicky è ora in pericolo di vita e con essa anche Bourne.

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Il pretesto con cui Jason Bourne viene riportato in azione fa quasi sorridere, annichilito in un vortice narrativo tipico del peggior b-movie, cosa che in passato la saga di Bourne aveva cercato di evitare. Così, proprio quando pensavamo che l’eroe avesse ormai riacquistato tutta la memoria e fosse tornato padrone della sua identità, ecco spuntare fantomatici nuovi dettagli sul suo passato, stavolta legati a suo padre. E così l’ex super-soldato della CIA è richiamato in azione per mettere un’altra pezza nella sua memoria, ma il caso vuole che i super-cattivi del governo stanno escogitando un piano tanto pauroso quanto poco chiaro che tenderebbe al controllo di tutto e tutti tramite i social network. Inevitabile che le due story-line si incontrino e scontrino in una amalgama riuscita particolarmente male in cui assistiamo a differenti prospettive sull’azione che a tratti sembrano quasi appartenere a diversi contesti. Da una parte c’è Bourne/Damon che dà pugni, spara, va in moto e cerca di sfuggire a inseguitori vari in scene d’azione di alterna efficacia, dall’altra troviamo il cattivo Tommy Lee Jones e la sfuggente Alicia Vikander dietro il monitor di un computer che tramano e fanno cose da smanettoni.

Due ore dipartire in queste due macro-tranche che, alla lunga, risultano un concentrato di noia micidiale.

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Il problema principale di Jason Bourne è, dunque, il suo minimalismo narrativo che non giustifica affatto la ripresa del franchise e non riesce a creare un’impalcatura per il film, il ché è ancora più grave se si pensa che il cosiddetto “deep web” e i pericoli che vi si possono annidare è un argomento attuale, interessante e complesso che avrebbe meritato ben più approfondimento.

Poi, diciamocelo chiaramente, si il lunghissimo inseguimento finale per le strade della città con il villain Vincent Cassel su un hammer corazzato è figo, però Paul Greengrass non è George Miller – tanto per citare un regista che ha dimostrato come un film possa reggersi sull’azione – e le coreografie delle sue scene d’azione sono spesso confusionarie e la parvenza di realismo data dalla costante macchina a mano non da modo di capire in che modo si svolge la dinamica della scena.

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Matt Damon parla pochissimo e agisce molto, come è giusto che sia, Tommy Lee Jones sicuramente non verrà mai ricordato per questo ruolo e Julia Stiles torna nel ruolo di Nicky Parsons. Ma l’unica vera presenza degna di nota è la lanciatissima e fresca di Oscar Alicia Vikander che, seppur non faccia altro che avere il volto illuminato dal monitor di un computer, buca lo schermo a ogni sua apparizione.

Ci saremmo aspettati davvero di meglio da un ritorno in pompa magna di Jason Bourne invece, a conti fatti, questo quinto capitolo è il più debole della saga.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Alicia Vikander.
  • L’inseguimento finale.
  • Una trama davvero troppo minimal per un film, di base, spionistico.
  • Il pretesto con cui Jason Bourne è richiamato in azione stenta a far attivare la sospensione dell’incredulità.
  • Le scene d’azione sono quasi tutte confusionarie.
  • Ma anche basta con sto Bourne, non era finito col terzo film???
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Valutazione: 5.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Jason Bourne, la recensione, 5.0 out of 10 based on 1 rating

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