Kimi, il ruggito claustrofobico (di un autore)

Nella Seattle dei giorni nostri, Angela Childs (Zoë Kravitz), una giovane affetta da agorafobia, si occupa da casa di monitorare il traffico in entrata di un nuovo assistente vocale di proprietà di una grande azienda operante nel settore tech, Amygdala. La ragazza intrattiene relazioni sociali solo tramite la rete, flirta con il ragazzo che abita dall’altra parte della strada e pare che la pandemia abbia inasprito i suoi disturbi psicologici, scaturiti dopo aver subito un’aggressione. Durante una sessione di correzione software dell’assistente vocale “Kimi”, Angela si imbatte in una traccia audio che nasconde quella che sembra essere una violenza sessuale. Dopo un’attenta analisi, decide di sottoporla ai suoi superiori per fare in modo che le autorità facciano luce sulla questione; nonostante i suoi contatti la ammoniscano riguardo al pericolo di sviscerare questo caso, la ragazza resterà fedele a sé stessa e subirà le conseguenze di una rete di cospirazioni e giochi di potere volti a seppellire tutto ciò che possa rappresentare una prova.

Tra il voyeurismo hitchcockiano de La finestra sul cortile, la paranoia sociale di Harry Caul nel capolavoro di Coppola La conversazione e la tensione claustrofobica di Repulsion e Rosemary’s baby, Steven Soderbergh e lo sceneggiatore David Koepp (Carlito’s Way, Panic Room), dipingono un quadro agghiacciante della morbosa freddezza con cui le grandi corporazioni posano lo sguardo (e aprono le orecchie) sulle nostre vite. La recita domestica del CEO di Amygdala con cui si apre il film, rappresenta schiettamente la modalità di narrazione melensa e parziale tipica dei grandi manager del tech, l’umanizzazione delirante dei dispositivi volti a semplificare le vite di tutti e perché no, a vagare indisturbati nei meandri più sinistri della privacy altrui, con il nostro distratto, ma complice, consenso.

Nel momento in cui Angela si troverà costretta a sfidare i suoi mostri, la morte come pretesto per tornare alla vita, lo spettatore verrà rigettato fuori insieme a lei, escamotage intelligente che permette a chiunque guardi di rivivere e analizzare i profondi solchi emotivi lasciati dal lockdown e dalla pandemia: la mancanza di socialità, l’isolamento, la paura del futuro immediatamente prossimo.

Se la futurista e imperfetta Londra di The Zero Theorem di Terry Gilliam era caratterizzata da una massiccia presenza di tecnologia invasiva e banner pubblicitari fin troppo interattivi, la Seattle post pandemia di Soderbergh è algida e fredda, un contenitore di corpi perfetto al limite dell’inanimato, come buona parte del cinema contemporaneo di successo, peraltro, spesso allineato alla deriva individualista e deumanizzante a cui la società occidentale si sta tristemente conformando. L’apparente quiete della città verrà rotta soltanto da un gruppo di manifestanti di cui Angela si servirà, salvo poi proseguire la sua vorticosa fuga tra edifici asettici e geolocalizzazioni pericolose.

Kimi è un film coraggioso e non solo perché affronta un tema parecchio inflazionato: è coraggioso perché lo fa senza intrecci retorici che sarebbe stato facile cavalcare, arriva al punto senza passare dalla pancia di chi guarda. Nonostante la pandemia e tutto ciò che ha prodotto risulti determinante per definire gli espedienti dell’ultima fatica di Soderbergh, il film non cade mai nel melodramma, l’analisi è lucida e la messa in scena è scevra da velleità stilistiche particolari, elementi che avrebbero di certo potuto caricare di vacuità un progetto nato con ben altri valori. L’autore analizza sé stesso e il cinema, si domanda quale ruolo possano giocare lui e l’industria per cui lavora in un mondo in cui gli esseri umani sono sempre più ridotti alla stregua di meri dati tracciabili, consultabili e richiudibili. Come nel metafisico Personal Shopper di Olivier Assayas, l’immaterialità alienante della tecnologia appare come un’opportunità ma si trasforma presto in una minaccia da cui guardarsi, mezzo in cui orbitano affascinanti ma ingombranti presenze di cui liberarsi per trovare la pace, semplicemente togliendo la propria scheda sim o gettando lo smartphone nella spazzatura.

Con il personaggio di Angela Childs, Steven Soderbergh, più che replicare un John Nada (l’indimenticabile protagonista di They Live di John Carpenter) degli anni Venti del duemila e in versione femminile, è riuscito a plasmare l’ennesima splendida eroina della sua carriera cinematografica. La protagonista dai capelli blu rappresenta la quintessenza della tenacia: nonostante abbia subito soprusi e si trovi in una labile condizione emotiva, rinasce dalle sue ceneri, combatte e lungo tutta la durata del film rimane fedele a sé stessa e ai suoi valori.

Il personaggio, interpretato da Zoë Kravitz, eredita il grande senso di giustizia della immarcescibile Erin Brockovich di Julia Roberts e il coraggio quasi martire della sempre troppo poco citata Dott.sa Hextall/Jennifer Ehle di Contagion, tra le altre. Il nuovo thriller al femminile di Soderbergh ci regala una donna ferita ma coraggiosa; la prova quanto mai fisica della Kravitz è perfettamente coerente con il personaggio, non deraglia nell’overacting nonostante le convulse scene di inseguimento che la vedono protagonista e nella prima metà del film riesce a rendere, grazie alle smorfie e al linguaggio del corpo, tutta la tensione del claustrofobico confinamento nell’appartamento in cui Angela vive e lavora, senza trovare la forza di uscire.

Nonostante la sua trentennale carriera di successi, il regista di Sesso, bugie e videotape, è spesso considerato alla stregua di un “mestierante”; Kimi, è l’ennesima conferma della capacità di Soderbergh di saper orbitare tra più universi con grande maestria e disinvoltura, i suoi film sono quasi sempre godibili ma non per questo privi di valore intrinseco. Il regista di Atlanta non manca mai di definire quale sia la sua personale visione del mondo all’interno delle sue opere, non specula, osa, prova di quanto la sua anima indipendentista carica di velleità autoriali non sia mai realmente svanita e Kimi, in questo senso, non fa di certo eccezione.

Il film è disponibile dal 10 Febbraio 2022 sulla piattaforma statunitense Hbo Max, la data e le modalità di uscita in Italia invece non sono state ancora definite.

Andrea Di Pede

PRO CONTRO
  • L’interpretazione di Zoë Kravitz.
  • La sensibilità e il modo coraggioso in cui riflette sulla società post lockdown/pandemia.
  • Nulla da segnalare.
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