L’Atelier, la recensione

Olivia Dejazet (Marina Foïs) è un’affermata autrice di gialli, bellissima, cinquantenne  e  borghese, che decide di tenere un laboratorio di scrittura a La Ciotat, città del sud della Francia nota un tempo per i cantieri navali ma ormai in piena crisi economica. Tra i suoi giovani e multi-etnici allievi spicca il nichilista Antoine (Matthieu Lucci), ragazzo introverso e di talento. Un tipo difficile, che cita la strage del Bataclan, gioca con una pistola e spesso è in rotta con gli altri su questioni politiche per le sue posizioni razziste e aggressive. L’atteggiamento di Antoine si fa sempre più violento con il passare dei giorni e Olivia sembra esserne spaventata e attratta al tempo stesso, finché la situazione sfugge drammaticamente di mano.

A 10 anni dalla Palma d’Oro conquistata con La classe, Laurent Cantet torna a raccontare conflitti politici e generazionali. Presentato al 70° Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, L’Atelier sarà nei nostri cinema dal 7 giugno, distribuito da Teodora Film. Il film è ambientato a La Ciotat, città che alla fine degli anni ’80 ha vissuto una grande stagione di lotte operaie dopo la chiusura dei cantieri navali. Il nostro obiettivo – racconta Cantet – era testimoniare la trasformazione radicale di una società che, probabilmente a causa degli della crisi politica ed economica, non ha più alcun rapporto con quel mondo del passato, un mondo che le vecchie generazioni vorrebbero che non scomparisse”. La narrazione funge da escamotage per comprendere quando il passato abbia perennemente senso per i giovani. Quei giovani, francesi e non, del dopo Bataclan. L’alta morbosità sentimentale si presta egregiamente per raccontare l’attualità politica ed il disagio di una generazione intrisa di incomunicabile sofferenza, che accusa fortemente la mancanza di futuro e lavoro, in una società ogni giorno più cattiva.

Non succede troppo in quest’opera ricca di straordinari colori acquarello, a volte quasi sfumati, ma che riescono a ritrarre in maniera chiara e definita l’attualità. O meglio: succede tutto e niente. Il workshop estivo di scrittura, popolato da giovani di etnie diverse, si trasforma in una perfetta metafora della società e delle vita. I ragazzi e le ragazze che compongono L’Atelier provengono da realtà diverse, con storie, paure, segreti e sogni differenti. Vediamo questi aspiranti scrittori lavorare alla stesura di un soggetto di un romanzo thriller, ma il vero thriller è la realtà in cui vivono. Il processo creativo cerca di fare riferimento anche al passato industriale della città, ma lo sforzo diventa vano. La paura, il razzismo e le incomprensioni causate dall’essenza di dialogo sono attuali e risiedono proprio su quel tavolo vista mare, dove i ragazzi si radunano ogni giorno. Non c’è bisogno di scavare nelle sofferenze del passato. L’orrore non è nella fantasia o nella finzione. L’orrore è nella cruda realtà: hic et nunc. Cantet sfrutta l’idea del workshop per proporre una lettura della condizione giovanile in un contesto di straordinaria ordinarietà. Il cast è composto in gran parte da giovani esordienti, selezionati grazie a dei casting aperti nei bar, nella palestra, nei teatri e nelle scuole. Tra questi Matthieu Lucci, che interpreta Antoine, è stata un’incredibile scoperta. Antoine, che è un po’ l’erede, l’evoluzione e la trasposizione moderna dell’omonimo Antoine del capolavoro di François Truffaut, I 400 Colpi, rappresenta proprio un ampio campione della condizione giovanile permeabile anche a slogan razzisti.

La filmografia di Laurent Cantet si annovera tra le più prolifiche ed efficaci quando si tratta di parlare e mostrare in modo genuino e onesto il mondo dei giovani, evitando patetismi, banalità, semplificazioni di cui si tinge spesso il nostro cinema italiano. Il grande regalo che ci fa il regista è quello di trattare i giovani come esseri responsabili senza utilizzare facili giustificazioni. I ragazzi dell’Atelier non godono di attenuanti e commiserazioni. Non sono  giustificati, anzi. Il regista li accusa mostrandoli immaturi, egoisti, violenti, intolleranti e fieri di esserlo, presentandoci un ventaglio di caratteri materialisti, di persone senza fantasia, spaventate da ciò che non conoscono, pronte a sposare un’ignoranza che li condanna all’immobilità mentale e caratteriale.

L’Atelier è un film difficile da digerire, pieno di domande e di risposte. Senza l’aggiunta di cliché non si limita a puntare un dito sui fatti ma offre anche soluzioni. L’opera diventa un diario della disperazione non solo francese, ma occidentale, dove razzismo,  terrorismo e le paure ad esso collegate alimentano fascismi rinati, in un’ Europa che dimentica il proprio passato ed il proprio futuro.

L’Atelier, confermando la maestria del regista francese quando si tratta di opere “sociali”, critica la nostra società incapace di garantire un futuro, a causa di problemi ereditati da un passato che i giovani non conoscono e che finiscono per odiare, percependolo come un peso, una responsabilità che non hanno scelto. Il film gode di una narrazione sapiente e perfetta nel restituire dal primo all’ultimo minuto una sensazione di disagio e tensione. Un film politico prima ancora che generazionale, spietato, crudo e sincero, che schiaccia con intelligenza gli stereotipi su “l’età della spensieratezza”.

Ilaria Berlingeri

PRO CONTRO
  • La fotografia.
  • L’ottima interpretazione di Matthieu Lucci.
  • Nessuno.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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L'Atelier, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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