Lo chiamavano Jeeg Robot, la recensione

È possibile creare in Italia, con l’attuale lassismo produttivo, un film di supereroi credibile e di qualità medio-alta? Stando a quanto fatto da Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot, suo primo lungometraggio, la risposta è indubbiamente si, vista anche l’ottica produttiva quasi indipendente intrapresa dal filmaker che sicuramente gli ha dato un maggiore margine di libertà.

Ovviamente non è la prima volta che il cinema italiano si confronta con il mondo superoistico, abbiamo il precedente comico-caciarone della saga dei 3 Fantastici Supermen, lo spy-movie fantascientifico Flashman, Superargo con i suoi due film, il parodistico Super Andy con Andy Luotto e, per certi versi, l’illustre Diabolik di Mario Bava (anche se in quel caso non parliamo né di “super” né di “eroe”, ma l’origine fumettistica lo potrebbe annoverare nella categoria). Poi, anche in tempi recentissimi, ci ha provato Gabriele Salvatores con il fallimentare Il ragazzo invisibile, chiaro esempio di ingenti capitali investiti male in un progetto che non si sapeva a che target indirizzare. Problematica abilmente aggirata da Mainetti che con Lo chiamavano Jeeg Robot punta direttamente a un pubblico adulto realizzando un crime-pulp che strizza l’occhio allo spettatore nerd. Il risultato è una sorta di Non essere cattivo mescolato con Il Cavaliere Oscuro, anche se i punti di paragone più pertinenti sono senz’altro i film di supereroi del panorama off americano come Kick-Ass, Super e Gardener of Eden.

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Lo chiamavano Jeeg Robot racconta la storia di Enzo Ceccotti, piccolo criminale solito sbarcare il lunario con furtarelli, che un giorno entra accidentalmente a contatto con una sostanza radioattiva nascosta sui fondali del Tevere. Da quel momento la sua forza e la sua resistenza assumono un’intensità sovrannaturale e inizia a utilizzare i superpoteri per alimentare le sue imprese criminali. Presto Enzo viene coinvolto dal suo amico e vicino di casa Sergio nel recupero di alcuni ovuli di droga trasportati da degli immigrati clandestini, ma la missione non va a buon fine, Sergio muore e Enzo si trova a dover fare i conti con lo Zingaro, il boss della zona a cui doveva essere recapitata la droga. Come se non bastasse, Enzo si trova suo malgrado a dover badare ad Alessia, la figlia minorata di Sergio fissata con l’anime Jeeg Robot d’acciaio.

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Partiamo con i difetti, che si sbrigano in poche righe, visto che il film di Mainetti è un prodotto davvero buono.

Perché prendere un personaggio già esistente come Jeeg Robot per crearne uno completamente nuovo? Non era meglio partire direttamente dal personaggio originale piuttosto che scomodare l’anime di Go Nagai? Se poi consideriamo che il collegamento al robottone dei Toei Animation è completamente gratuita e pretestuosa, arriviamo presto a una risposta: Gabriele Mainetti è un nerd all’ultimo stadio (i suoi corti precedenti dedicati a Lupin III e Tiger Man non lasciavano già dubbi) e non è stato capace di scindere le sue passioni da un lavoro coerente e ragionato… ma vabbè, lo si perdona (perché lo si comprende), ma il suo potenziale franchise così ne esce svantaggiato sul piano puramente nomeclativo-identificativo.

Secondo (e ultimo) difetto è il personaggio di Alessia. Un personaggio scritto male, forse nato appunto per giustificare l’inserimento di Jeeg Robot, che non convince perché non è credibile. Non era meglio se Alessia fosse stata una bambina? Un’adulta con trauma alle spalle che l’ha fatta regredire allo stato infantile non funziona e non aiuta la scelta dell’esordiente ex gieffina Ilenia Pastorelli come attrice, sicuramente naturale nell’interpretazione (ricorda molto Micaela Ramazzotti nei suoi eccessi di romanità) ma fisicamente poco credibile nel ruolo.

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Se chiudiamo gli occhi su questi elementi, imputabili principalmente all’ingenuità con cui si intraprende un’opera prima forse fin troppo ambiziosa, rimane di Lo chiamavano Jeeg Robot un prodotto a dir poco sorprendente. Certo, verrebbe da dire che è un piccolo miracolo se inserito nell’attuale contesto italiano, ed è vero, ma il film di Mainetti è un buon film anche se avulso da qualsiasi ottica di nazionalità.

Enzo Ceccotti, con il suo fare menefreghista da eroe contro ogni volontà e con la sua fisicità massiccia, non solo regala a Claudio Santamaria la sua migliore interpretazione di sempre, ma è un credibilissimo “eroe proletario” ben diverso da qualsiasi personaggio del genere visto in questi anni su piccolo e grande schermo.  La sua nemesi è rappresentata da Fabio Cannizzaro, detto lo Zingaro, uno psicopatico megalomane e con il pallino della visibilità a tutti i costi, una “prima donna” che ha un passato nel varietà televisivo e ora si diletta a cantare Anna Oxa in paillette nei night club romani. Lo Zingaro ha il volto di Luca Marinelli, attore versatile e in grande ascesa che qui dimostra delle doti da caratterista invidiabili: la sua recitazione è caricatissima, ma il personaggio così ne esce fortemente personalizzato, una sorta di Joker (quello di Heath Ledger) alla romana che ha l’ossessione della celebrità (internet e Youtube giocano un ruolo primario) e mette gli occhi sui superpoteri di Enzo, forse unico vero modo per far parlare di sé e diventare virale.

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I due personaggi sono immersi in un contesto semi-futuristico ma incredibilmente attuale. Si tratta di una Roma fuori da qualsiasi datazione, ma chiaramente odierna dove le strade sono sconvolte da esplosioni e pericoli di attentati da parte di non ben precisate frange terroristiche che sembrano fare il verso a recenti fatti di cronaca nera internazionale, anticipati da Mainetti con un clima di tensione che tristemente si adatta con credibilità alla Città Eterna.

In questo ambiente vediamo vivere e sopravvivere personaggi di contorno che sembrano usciti dalla Roma neorealista, in particolare quella che abbiamo visto nelle opere del compianto Claudio Caligari, adattati alle tematiche superoistiche dagli sceneggiatori Menotti e Nicola Guaglianone con abilità e originalità, dando al prodotto una personalità tutta italiana che evita il confronto e lo scimmiottamento di ben più ricchi prodotti d’oltreoceano.

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Belle e pregnanti le musiche che uniscono a pezzi della tradizione leggera italiana a tracce originali composte dallo stesso regista e Michele Braga e incredibilmente ben fatte le scene d’azione, che utilizzano l’effetto speciale in maniera intelligente e mai invasiva puntando sul montaggio e sulla credibilità della manifestazione dei poteri dei personaggi. Poi c’è una sfacciata esibizione gratuita della violenza che raggiunge spesso apici splatter, che non si può che adorare, perché è genuina e portata sullo schermo con la passione di chi con il cinema di genere c’è cresciuto.

Insomma, seppur imperfetto, Lo chiamavano Jeeg Robot è un’opera prima notevole e la dimostrazione che anche in Italia si può fare un cinema diverso e competitivo, basta un po’ di coraggio, cognizione di causa e una mentalità che vada oltre il prodottucolo populista pronto per la prima serata televisiva.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un prodotto diverso e coraggioso per l’ambiente produttivo italiano.
  • Ottimi Claudio Santamaria e Luca Marinelli.
  • Scene d’azione ben girate e cognizione nell’utilizzo degli effetti speciali.
  • Il personaggio di Alessia e l’interpreta scelta per impersonarla.
  • Perché proprio Jeeg Robot?
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