Lo Spietato, la recensione

Va da sé.
È ovvio.
È scontato.
Insomma, ça va sans dire.
Sentirete questa frase praticamente sempre, durante l’ora e quarantasette minuti del film Lo Spietato.
E lo ripeterete, più è più volte.
Perché?
Perché Riccardo Scamarcio lo dice in un modo così vero, simpatico e genuino, che non potrete più farne a meno.
Lo scrivo subito: Lo Spietato è una grande occasione mancata.
O meglio, l’idea alla base lo è.
C’era talmente tanto materiale (storyline secondarie e caratteristi esemplari) che il tutto avrebbe potuto convergere in una serie tv (prodotto tanto caro a Netflix, ça va sans dire) da almeno otto puntate.
Il film è ispirato a Manager Calibro 9, libro scritto da Luca Fazzo e Piero Colaprico, e racconta l’ascesa e il declino di Santo Russo, criminale calabrese cresciuto nella “Milano da” bere degli anni Ottanta.
La storia è molto lineare, con stilemi e canoni abbastanza classici e già visti. La differenza, intesa come evidenza, la fa proprio Scamarcio: entra completamente in simbiosi con il personaggio e l’ambientazione.
Non sono mai stato un grande fan dell’attore, ma devo ammettere che riesce a ipnotizzare; riesce ad essere così credibile e naturale che avrei creduto di guardare un documentario, non fosse altro peri il montaggio e il taglio decisamente cinematografici.
Rapine, droga, sesso e imprenditoria sono i quattro cardini che muovono Santo, accompagnato dall’ottima ricostruzione della Milano dell’epoca (costumi, automobili e arredamenti) e da due fidi compagni: Slim (Alessio Praticò, già visto nella bellissima serie Il Miracolo) e Mario Barbieri (l’ottimo Alessandro Tedeschi).
C’è anche spazio per il vero amore, anzi, i veri amori: Mariangela, la moglie di Santo, interpretata magistralmente da Sara Serraiocco e Annabelle, l’artista maledetta, ovvero Marie-Ange Casta (la bellissima sorella di Laetitia Casta).
Circa due ore, dicevo, appassionate e appassionanti che coprono circa trent’anni di storia.
Con grande rammarico ammetto che si poteva fare davvero molto di più: un ammiccante e affascinante Scamarcio regge sì il “peso” dell’intero film, ma tant’è.
Provo a spiegarmi meglio: al di là della classicità della narrazione e della sensazione perenne del “visto e rivisto”, il periodo in cui si svolge la storia è così pieno di fatti e accadimenti unici, che paradossalmente ha creato una spaccatura tra gli anni Ottanta e la storia del film.
Questa spaccatura è molto evidente perché la storia sembra quasi un innesto in quel contesto, sembra quasi un vedo/non vedo, un affacciarsi in quel determinato periodo storico poco approfondito se non con i punti di forza precedentemente elencati.
Il mio consiglio, spassionato ma consapevole di beccare critiche dai puristi del genere noir, è quello di dare una possibilità a questo film e di godersi circa due ore di puro fascino e divertimento.
Tanto, rimarcando un’ovvietà, è la stessa piattaforma (Netflix) che permette di sperimentare e cogliere occasioni, no?
Fabrizio Vecchione
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