Locke, la recensione

Le telefonate nei film hanno un’importanza fondamentale. Quando un personaggio alza la cornetta o preme il tasto di risposta, sta facendo una scelta, sta portando avanti la storia, sta sancendo le sorti dell’intera vicenda. Pensiamo al modo in cui il mezzo telefonico è stato determinante per la costruzione della suspense in film come Il delitto perfetto di Hitchcock, Il terrore corre sul filo di Anatole Litvak, Gli occhi degli altri di William Castle, Quando chiama uno sconosciuto di Fred Walton, Scream di Wes Craven o In linea con l’assassino di Joel Schumacher. Tanti film che utilizzano il telefono per veicolare inquietudine e terrore, rendendo lo psicopatico di turno un logorroico affabulatore che colpisce di parola più che di spada.

Locke è un film che porta all’estremo l’utilizzo dell’apparecchio telefonico e pur non rientrando minimamente nel genere thriller come i titoli su citati, costruendo piuttosto una vicenda di quotidiana drammaticità, riesce a veicolare un’ansia tensiva nello spettatore che dipende unicamente delle molteplici storie che il protagonista e unico attore in scena riesce ad intrecciare durante le sue frequenti conversazioni telefoniche in macchina.

Tom Hardy è Ivan Locke, impegnato in un viaggio che gli cambierà la vita

Tom Hardy è Ivan Locke, impegnato in un viaggio che gli cambierà la vita

I 90 minuti scarsi di durata di Locke sono il viaggio in tempo reale di Ivan Locke per raggiungere un ospedale di Londra dove una donna sta partorendo suo figlio. Quella donna non è sua moglie, ma una sua avventura di una notte. Sua moglie, invece, sta a casa con i suoi due figli e aspetta il marito per guardare tutti insieme la partita di football. Ma Locke, scegliendo di dirigersi a Londra da quell’estranea, non solo mette in discussione il rapporto con la sua famiglia, ma anche la sua posizione lavorativa, visto che è costretto ad assentarsi dal cantiere edile in cui lavora. Durante quella notte, durante quei 90 minuti, l’intera vita di Ivan Locke viene messa in discussione, tutte le sue certezze e le sue sicurezze crollano con una manciata di telefonate che lo gettano letteralmente nel baratro.

L’idea per Locke viene al regista e sceneggiatore Steven Knight mentre girava il suo film precedente, il thriller/action con Jason Statham Redemption – Identità nascoste, quando si trovò ad effettuare delle riprese nell’abitacolo di un’automobile con una macchina da presa digitale, la Alexa. Da quel momento Knight pensò che sarebbe stato affascinante ambientare un intero film all’interno di un’automobile e da quella suggestione a Locke il passo è stato breve.

Presentato con un certo clamore di critica alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 2013, Locke ha l’unica location nell’automobile del protagonista e l’unico attore in scena Tom Hardy. Dato l’estremo minimalismo della messa in scena, viene da pensare a un altro piccolo film che concettualmente si basava sugli stessi principi, quel Buried – Sepolto che nel 2010 ha fatto conoscere il talento di Rodrigo Còrtes. Ma se in Buried la riduzione di cast e location serviva per alimentare il mistero che gravava attorno alla vicenda, in Locke questo serve a creare un mondo e lasciare che lo spettatore gli dia corpo. Vediamo in scena solo Tom Hardy, un magnifico Tom Hardy che qui conferma – se qualcuno non l’avesse ancora capito – che attore gigantesco sia, capace di reggere un intero film solo sul volto smunto dal raffreddore e dalle preoccupazioni, eppure dall’incredibile capacità di avere il controllo emotivo della situazione. Però sentiamo dall’altro capo del telefono tante voci, ognuna delle quali è una differente storia: c’è la sua amante che sta partorendo, con la partecipazione vocale della suora e del dottore della clinica privata in cui è ricoverata che lo contattano per aggiornarlo della situazione; c’è sua moglie Katrina, distrutta dalla rivelazione del marito fedifrago, e i suoi due figli che passano dall’euforia di una serata di sport in tv alla consapevolezza che qualche cosa tra i genitori è andata storta; poi c’è il suo assistente Donel, che un po’ sbronzo ha il compito di risolvere un’importante situazione lavorativa, e il suo superiore che non ha accettato l’assenteismo “ingiustificato” di Ivan Locke. Insomma, tante storie diverse che si intrecciano in quell’ora e mezza e hanno come comune denominatore Locke, uomo dalla ferrea morale intenzionato ad espiare i suoi peccati in una notte, durante la quale capisce che “la differenza tra mai e una volta sola è come la differenza tra il bene e il male”.

Ivan Locke e le decisioni importanti

Ivan Locke e le decisioni importanti

Steven Knight, che prima di essere un regista è un ottimo sceneggiatore con all’attivo Piccoli affari sporchi e La promessa dell’assassino, costruisce uno script interamente basato sui dialoghi, un botta e risposta continuo che ha un’ampiezza di respiro tale da riuscire a rendere perfettamente tangibili allo spettatore i personaggi del racconto che non compaiono mai visivamente sullo schermo. Durante il tragitto di Locke riusciamo ad entrare in empatia perfetta non solo con il protagonista che vediamo, ma anche con sua moglie Katrina e con il suo collega Donal, soffriamo e ridiamo con tutti loro. E se ciò accade è solo perché il film funziona nel suo voler essere un esperimento votato alla sottrazione ma perfettamente capace di catturare l’attenzione e rendere partecipi nella vicenda.

Locke è il classico film che concettualmente può trovarsi in precario equilibrio su una lama di rasoio, ma grazie a un’ottima sceneggiatura, un attore perfetto e un gran senso del ritmo narrativo, esce con successo mostrandosi clamorosamente un grande film.

Roberto Giacomelli 

PRO CONTRO
  • Ottimi dialoghi.
  • Tom Hardy è magnifico.
  • Senso del ritmo narrativo molto alto malgrado la staticità dell’azione.
  • Inevitabilmente si può avvertire una certa ripetitività nella costruzione.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +1 (da 1 voto)
Locke, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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