Malala, la recensione

La pakistana Malala ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 2014 a soli diciassette anni, per il suo attivismo politico verso l’istruzione femminile, osteggiata dai Telebani. Nel 2012, quando aveva appena quindici anni, un estremista le sparò in testa. Fortunamente è sopravvissuta, ed è riuscita a continuare la sua lotta per i diritti delle donne.

Il documentario di Davis Guggenheim (premio Oscar nel 2007 per Una scomoda verità) non aggiunge altre informazioni a queste brevi righe. Nè sotto il lato umano, nè sotto quello di approfondimento. Risulta complesso riuscire a comprendere quale sia lo scopo di Malala, proprio per questo suo anonimato.

Il titolo e l’impostazione del documentario, fatto di interviste e aneddoti, possono far pensare al ritratto umano di una ragazza straordinaria. A far emergere il suo profilo più intimo. Darle, in pratica, un’identità oltre quella di “ragazzina che ha vinto il Nobel a 17 anni”. Ma, a parte brevi sprazzi, questo non emerge mai. Malala non è mai una ragazzina. Non è mai, effettivamente, una persona.

Quello di Guggenheim non è un documentario: è un’agiografia.

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La sequenza iniziale segna subito i binari su cui si muoverà l’intero documentario: Malala racconta una vecchia storia, mostrata sotto forma di bellissimi disegni animati (che torneranno per tutto il documentario quando dovranno essere mostrati i ricordi). Durante la guerra fra Pakistan e Inghilterra, l’esercito pakistano sta fuggendo. Allora una donna si arrampica su una montagna e, con la sua voce, infonde coraggio alle truppe che tornano a combattere. Ma, discesa, le sparano. Quella donna è Malala. Sia di nome, sia, come suggerisce didascalicamente il montaggio, metaforicamente.

Ma d’altronde sarebbe stato difficile non cadere nell’agiografia, essendo pur sempre la storia di una ragazza a cui hanno sparato in testa perché ha osato lottare per i propri diritti. È, in fondo, comprensibile questo taglio nel raccontare la persona di Malala.

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Ciò che non si perdona a Guggenheim è l’appiattire l’intero documentario in questo modo. Se, infatti, l’agiografia di Malala è accettabile (e sopportabile), quella del padre appare come grottesca e a tratti fastidiosa. Così, la lotta di Malala per i diritti dell’istruzione femminile, diventa una scialba lotta fra il Bene e il Male, impersonificato dai Talebani, che si comportano come sciami di cavallette. Non c’è attualità, spiegazione o politica nel documentario di Guggenheim, ed è questo forse l’aspetto più grave.

È un peccato tutto questo anche perché i brevi scorci di umanità che si notano qua e là fanno intuire come la storia di Malala avrebbe potuto essere una storia molto più interessante. La fragilità e spaesamento di della ragazza, nelle sue azioni e nella sua lotta, l’egocentrismo (forse manipolatorio) del padre, lasciano intravedere un’umanità ben più complessa di quella raccontata da Guggenheim. Ma, forse, la figura che più colpisce di tutto Malala è quella della madre: una donna tradizionalista, che non parla inglese e che ha tagliato ogni legame con la sua vecchia vita, lasciata ai margini dall’unione viscerale fra padre e figlia, che la biasimano velatamente. Ma questo è tutto un altro documentario che in Malala non trova affatto spazio.

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L’altro punto debole di Malala è il fatto che, in una storia e in un documentario che si nutre fortemente di parole (come anche il racconto della balbuzia del padre suggerisce), i discorsi sono spesso retorici, composti di frase fatte, che fanno sbuffare lo spettatore.

Forse ciò che si voleva era far conoscere la storia di Malala a più persone possibili. Obiettivo più che condivisibile, ma anche in questo caso riesce difficile credere che questo insipido documentario abbia più successo della consegna del Premio Nobel per la Pace.

Samuele Petrangeli

PRO CONTRO
  • I racconti sotto forma di disegni animati.
  • I brevi sprazzi di umanità.

 

  • Pura agiografia.
  • Superficialità e retorica.
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