Man in the Dark, la recensione

Il buio, si sa, è una delle paure ataviche che affligge l’uomo. L’impossibilità di vedere cosa c’è davanti ai nostri piedi, il senso di vuoto che l’assenza di luce genera, lo smarrimento, il freddo interiore, l’incertezza su cosa si nasconde tra le tenebre… mostri, forse! Tutte sensazioni con le quali l’orrore – cinematografico, così come letterario – va a braccetto e non a caso topiche nella narrativa gotica e nel cinema di alcuni maestri del passato e della contemporaneità. Fede Alvarez, che abbiamo conosciuto grazie all’ottimo remake de La Casa, fa suo questo elemento fondamentale dell’horror e ne elabora una sua personalissima e originale visione perché in Man in the Dark il buio è quello a cui è costretto un non vedente, ma che si ripercuote anche nelle giovani vittime sacrificali del caso.

La storia segue le gesta di tre giovani topi d’appartamento, ragazzi con difficoltà economiche e famigliari che sbarcano il lunario intrufolandosi in abitazioni e svaligiandole. Uno di loro organizza un colpo che, all’apparenza, è semplicissimo: in una vecchia casa in un quartiere praticamente abbandonato vive un anziano non vedente, reduce di guerra, a cui un incidente stradale, qualche anno prima, ha portato via la figlia. Per quella disgrazia, l’uomo ha ricevuto un ingente premio in denaro dall’assicurazione custodito nel suo appartamento, pronto per essere trafugato. Il piano è semplice: di notte i tre drogano il rottweiler da cui l’uomo non si separa mai, si introducono nell’abitazione, addormentano il proprietario col cloroformio e agiscono indisturbati. Ma, come è lecito aspettarsi, le cose non vanno come previsto e quell’anziano cieco è molto meno indifeso di quello che si potrebbe immaginare.

man in the dark 1

In originale si intitola Don’t Breathe, perché il film di Fede Alvarez più che sulla vista gioca sull’udito. Un film sensoriale, che ci mette nei panni dei carnefici-vittime: il loro compito è non far rumore, visto che è l’unico modo attraverso cui il derubato potrebbe scoprirli, ma la ricerca del silenzio – che ovviamente sarà difficilissima da perseguire! – diventa per loro non solo il motivo di riuscita del colpo, ma anche l’unico modo che hanno di sopravvivere alla furia di un uomo decisamente pericoloso.

“The Blind Man”, come indicano i credits, ha il volto di Stephen Lang, che lo spettatore già conosce come villain in Avatar, qui nei panni di un veterano dell’esercito degli Stati Uniti, quindi non solo ben addestrato a difendersi, ma anche ad uccidere. Il modo come questo anomalo “cattivo” è stato caratterizzato è il buon 50% della riuscita del film perché Lang ha il volto tragico e afflitto di una persona che ha subito, ha una ferita ancora aperta nell’animo, che può essere identificata nella guerra che gli ha causato la cecità o la recente morte della figlia; allo stesso tempo, questo aspetto vittimistico che porrebbe chiunque a identificarsi con lui, viene equilibrato da una forma di psicopatia che va ben oltre la difesa della proprietà privata e che risulta un bella sorpresa per lo spettatore.

Stephen Lang

Alvarez, grazie anche al fido co-sceneggiatore Rodo Sayagues, riesce ad affrontare nel film una serie di tematiche affatto banali che si dipanano senza mai smarrire la strada maestra del b-movie. La sempre verde critica al sistema americano legato al possesso delle armi e alla difesa della proprietà privata raggiunge una vetta di cinismo molto accentuata che va a scontrarsi con la divisione per classi sociali tipica delle metropoli americane, dove la scissione in “serie a” e “serie b” nella popolazione cuce un’etichetta sulle persone e sul pensar comune delle masse. L’America reazionaria, il classismo, la famiglia… tutte tematiche che riportano a certo cinema horror che ha fatto grande il genere negli anni passati e, infatti, Man in the Dark richiama prepotentemente un film in particolare, il bellissimo La casa nera di Wes Craven, gioiellino che non solo affronta i medesimi temi, ma porta in scena una situazione simile, con dei ladri che si intrufolano nella casa sbagliata. Consideriamolo un omaggio del buon Alvarez al compianto maestro dell’horror, il che ci può stare, visto che a produrre è Sam Raimi, che non ha mai nascosto la sua stima nei confronti del regista di Nightmare.

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Alvarez riesce a costruire un film dalla tensione costante, dove ogni volta che sembra si stia avvicinando l’epilogo, tutto inizia di nuovo daccapo, lasciando lo spettatore letteralmente con il fiato sospeso. E poi c’è da spezzare una lancia in favore di Jane Levy, che aveva già dimostrato il suo talento in La Casa, ma qui si supera esibendosi in una prova attoriale degna di nota.

Al secondo centro, Fede Alvarez si conferma un talento da tenere seriamente d’occhio!

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Tensione costante.
  • Jane Levy: bravissima!
  • Il modo in cui è tratteggiato il villain.
  • Affronta tematiche di rilevanza sociale senza mai cadere nel banale, pur non smarrendo l’intento da film di genere.
  • Qualche svolta è abbastanza improbabile.
  • Il rimandare il finale per 2-3 volte può apparire frustrante.
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