Mi chiamo Maya, la recensione

Quando Lena (Carlotta Natoli), mamma adorata della sedicenne Niki (Matilda Lutz) e della piccola Alice (Melissa Monti), perde la vita in un tragico incidente, le ragazze, pur di non separarsi, decidono di scappare. La loro fuga conquista in un baleno l’attenzione dei media e l’apprensione della dimessa assistente sociale Cecilia (Valeria Solarino), sinceramente desiderosa ad aiutarle. Il percorso di Niki e Alice attraverso una Roma familiare eppure densa di lati oscuri incrocerà il destino di personaggi bizzarri e poco rassicuranti, ma le condurrà anche verso una nuova consapevolezza di sé e delle proprie scelte.

L’opera prima del giovane Tommaso Agnese, regista molto sensibile alle delicate tematiche sociali e, in particolare, alle problematiche giovanili, si affida all’architettura del racconto di formazione e ci accompagna nel mondo fragile e complesso degli adolescenti allo sbando. Un microcosmo metropolitano senza punti di riferimento, fatto di vizi superflui e pericolosi, privo di valori e di solidarietà.

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Ciascuno dei giovani personaggi che entra in contatto con le due sorelle vive alla giornata, perseguendo futili obiettivi e senza curarsi del futuro. Gli adulti sono assenti, oppure sono poco più che figure di contorno, incapaci di comunicare con le nuove generazioni perché insicuri sul da farsi o disinteressati. La regia pulita e decisa dipinge vividamente questo affresco duro e malinconico dei giovani d’oggi, affidandosi alla forza delle immagini e all’intensità delle turbolente emozioni della protagonista. Contribuiscono al risultato le felici scelte per quanto riguarda la colonna sonora originale, firmata da Giorgio Giampà.

La città di Roma, ben fotografata nei suoi scorci celeberrimi e nei suoi angoli meno noti, è ambigua coprotagonista della vicenda e avvolge le protagoniste ora con bonaria accoglienza, ora come se volesse inghiottirle. Sarà tra le sue strade e nei suoi quartieri che Niki – e con lei lo spettatore – capirà che il disperato desiderio di trasgressione e di ribellione dei suoi coetanei non è altro che un sordo grido di auto affermazione. In un mondo privo di regole e responsabilità, infatti, lo ‘sballo’ e la fuga sono i frementi sintomi della confusa ricerca di un’identità. Ma chissà che, per la nostra protagonista, non possano trasformarsi in un’occasione per crescere e maturare.

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Il cast regala complessivamente interpretazioni convincenti e credibili. Segnaliamo, in particolare, la performance di Laura Gigante, nei panni di una tatuatrice punk tosta e nichilista. Sebbene non si tratti dell’unico ritratto femminile del film, è di certo quello che spiazza maggiormente per sincerità e forza espressiva. Non altrettanto incisiva risulta, invece, la prova della giovane Matilda Lutz, la cui recitazione non sempre va di pari passo con l’emotività, compromettendo in parte l’efficacia dei momenti più intensi.

Mi chiamo Maya offre una serie di spunti significativi, attuali e urgenti poiché rivela, senza censure né moralismo, cosa significa essere ragazzi, oggi, in una metropoli come la Capitale. È indirizzato, pertanto, tanto a un pubblico giovane che adulto e destinato a dimostrare che le storie socialmente impegnate non sono fatte solo per il piccolo schermo, ma possono godere di ampio respiro anche al cinema.
Il film, prodotto da Magda Film e Rai Cinema, è in sala dal 7 maggio, distribuito da Red Post Production.

Chiara Carnà

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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Mi chiamo Maya, la recensione, 6.0 out of 10 based on 1 rating

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