Mine, la recensione

Negli ultimi quindici anni il cosiddetto “trap-movie”, i film con le trappole, hanno preso piede diventando un vero e proprio sotto-filone del thriller: dall’ormai lontano cult Cube – Il cubo (1997) di Vincenzo Natali, che forse ha proprio sdoganato le dinamiche del genere, passando per i fondamentali In linea con l’assassino (2002), Open Water (2003), Frozen (2010), Buried – Sepolto (2010) e 127 ore (2010) di Danny Boyle, di “film-trappola” al cinema ne sono passati molti, arrivando quest’anno all’ottimo Paradise Beach – Dentro l’incubo, con Blake Lively su uno scoglio in balia di uno squalo, e Mine, degli italiani Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, dove il soldato Armie Hammer rimane bloccato nel deserto su una mina innescata.

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Il segreto dei trap-movie è la sfida che questi film lanciano allo spettatore, la scommessa di riuscire a intrattenerlo dilatando per un’ora e mezza una singola situazione, spesso inserendo un solo personaggio in un unico ambiente per tutto il tempo. A volte le scommesse sono vinte e questa tipologia di film dà vita ad autentici gioielli capaci di fare tendenza, come buona parte dei titoli su citati, altre volte ci si trova dinnanzi a insopportabili mattoni dove l’incapacità di gestire i tempi è inversamente proporzionale alla noia suscitata.

Con Mine, al cinema a ottobre 2016 grazie a Eagle Pictures, gli esordienti Fabio&Fabio (come si firmano) dimostrano di aver appreso le dinamiche che portano alla costruzione di un buon trap-movie, ma allo stesso tempo tendono alla ricerca di “altro”, assolutamente superfluo per questo tipo di film che fanno del minimalismo e della tensione relegata al “qui e ora” la formula del successo.

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In Mine si racconta la storia di Mike, cecchino americano stanziato in una zona di guerra in Medio Oriente e impegnato con la sua vedetta Tommy in una delicata missione omicida. Però Mike non se la sente di far saltare la testa a quel presunto terrorista proprio nel momento in cui sta celebrando il suo matrimonio e fa fallire la missione. Durante il tragitto verso il villaggio indicato come punto di recupero, Mike e Tommy finiscono in un campo minato: la vedetta salta in aria rimanendo atrocemente mutilato, il cecchino, invece, innesca una mina e si blocca su quell’ordigno esplosivo, certo della sua morte qualora facesse un solo passo. In balia del sole, della sete, delle tempeste di sabbia e dei feroci animali che si aggirano di notte da quelle parti, Mike dovrà sopravvivere fino all’arrivo dei rinforzi. Immobile per 52 ore.

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 I due Fabio, che si sono fatti notare Oltreoceano grazie al cortometraggio Afterville, non sono proprio nuovi al trap-movie visto che nel 2012 hanno scritto e prodotto True Love, un thriller diretto da Enrico Clerico Nasino già fortemente legato all’ottica del trap-movie e avente come punto di riferimento Saw. L’high-concept che sta alla base di Mine non è una novità ed esplorando i meandri del cinema indie internazionale spuntano film che hanno al centro dell’idea un uomo bloccato su una mina: se un precedente ormai lontano e piuttosto celebre può essere trovato in No Man’s Land (2001) di Danis Tanovi, nel 2014 è stato prodotto in Francia Piégè – Passo falso, che racconta una situazione molto simile a quella di Mine, e dello stesso anno è anche l’inglese Kylo Two Bravo di Paul Katis, in cui un gruppo di soldati finisce mutilato in una gola colma di mine inesplose.

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Mine prende una direzione differente dai film a cui concettualmente somiglia perché applica nel senso più stretto della regola il principio del trap-movie e allo stesso tempo tenta di compiere un percorso introspettivo sul personaggio protagonista che dovrebbe fornirgli una più pregnante delineazione.

Per circa due terzi della sua durata, Mine funziona alla perfezione. È più o meno il tempo che dedica alla situazione di preparazione e attuazione del pericolo, quando Mike “sta per” e poi “mette” il piede sulla mina.

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Al di là di una delineazione un po’ infantile dei personaggi di contorno (il troppo spavaldo collega Tommy e poi l’indigeno che presta soccorso al soldato, che dovrebbe stemperare la tensione con i suoi fastidiosi interventi comici), Mine riesce a creare una tensione crescente davvero invidiabile con una gestione dei tempi e degli spazi ottima. Mike è lì, immobile, e noi con lui patiamo fame, sete e caldo, ci sforziamo di raggiungere lo zainetto con la radio per chiamare i soccorsi e cerchiamo di sopravvive all’attacco notturno delle belve del deserto. Poi, malgrado il film funzionasse a meraviglia nel suo minimalismo, Fabio&Fabio vogliono esplorare il passato e la vita quotidiana di Mike un po’ come fece Danny Boyle con 127 ore; ma se lì la vita fuori dal pericolo era cadenzata all’interno di tutta la narrazione con flashback che servivano a creare una storyline parallela, in Mine tutto questo arriva in maniera crescente da metà film e occupa in maniera ingombrante l’ultimo atto.

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Il problema è che ci troviamo di fronte a un mare di retorica, con una moglie che aspetta a casa, un padre manesco che ancora popola gli incubi del protagonista, una madre amorevole ma al centro di una tragedia… e così un uomo messo alla prova dal destino diventa un uomo che deve fare i conti con il proprio inconscio e con i mostri personali. Concetti visti altrove tante volte e gestiti meglio che qui potevano essere evitati rendendo il film più compatto e fluido, nonché più breve.

Armie Hammer, che abbiamo già visto in The Lone Ranger e Operazione U.N.C.L.E., qui anche produttore, è un protagonista perfetto non solo perché incarna l’ideale del soldato americano come la nostra immaginazione suggerirebbe, ma anche perché ha il carisma e l’intensità di sguardo per reggere interamente sulle proprie spalle un intero film.

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Dunque, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, grazie all’interesse del produttore Peter Safran – che guarda caso è proprio l’uomo dietro quel Buried che estremizzava il trap-movie – e alla sinergia co-produttiva con la Spagna, portano a casa un esordio molto interessante, sicuramente un film ancora acerbo soprattutto dal punto di vista della scrittura, ma capace di lasciare il segno.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • I primi 75 minuti sono un manuale di come tenere desta l’attenzione e alta la tensione.
  • Armie Hammer è molto bravo e credibile.
  • Ottimo utilizzo degli effetti speciali “invisibili”: basti pensare che il film è stato girato su una spiaggia e il mare cancellato in post-produzione.
  • Gli ultimi 20 minuti sono gonfi di retorica e concetti ridondanti, francamente inutili.
  • I personaggi di contorno sono scritti malino.
  • Che fine fanno le carcasse delle bestie che attaccano Mike?
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Valutazione: 6.0/10 (su un totale di 1 voto)
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