Mister Chocolat, la recensione

Un sorriso splendete e bianchissimo affianca una pelle lucida d’ebano, questi sono i tratti distintivi di Omar Sy, attore portato alla notorietà da quel gioiello di scrittura che porta il nome di Quasi Amici. Ormai diventato uno degli attori francesi più pagati, Sy si carica sulle spalle Mister Chocolat, l’ultimo film del regista-attore Roschdy Zem.

La parola d’ordine è originalità del soggetto. La pellicola è ispirata (solo ispirata però) alla storia vera del primo artista nero diventato famoso sul territorio francese. Il clown Chocolat ottenne un incredibile successo nella Parigi di inizio secolo grazie all’artista Footit con il quale formava un duo indivisibile, sul palcoscenico ma anche nella vita. La storia, portata all’attenzione del regista dai produttori Nicolas ed Eric Altmayer, possedeva quel pizzico in più che spesso riescono a mantenere le commedie francesi contemporanee sempre un passo avanti a quelle italiane. Una piccola storia, quasi completamente dimenticata dal mondo, per raccontare problemi complessi: i “soliti” problemi che tutti noi conosciamo (o pensiamo di conoscere) come il razzismo e la diversità ma di cui ormai quasi non vogliamo sentire più parlare data la quantità di film che li hanno affrontati. A fare la differenza in questi casi è sempre il punto di vista: la forza della pellicola è rintracciabile nella visione distorta e inconsapevole dello stesso Chocolat che non si rende (o non vuole rendersi) conto del mondo che lo circonda.

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Accanto all’innegabile originalità e freschezza della storia (voler riprendere un’arte sempre troppo poco documentata come quella circense è un grande merito), il film non riesce ad avere un carattere deciso e un’omogeneità interna. I problemi narrativi di Mister Chocolat nascono dal desiderio di voler raccontare troppe cose differenti, finendo per non raccontarne bene nessuna.

Il tema razziale e l’accettazione, in una società così formalmente impeccabile eppure così marcia nell’animo come quella della Belle Epoque, sono tematiche che potevano riempire totalmente il film e dovevano essere trattate con i tempi giusti.

Nella prima parte del film, il razzismo viene raffigurato in maniera sottile, quasi sempre nascosta e subdola ed è proprio quando questa rappresentazione viene meno, nella seconda parte, che il film viene snaturato nella forza che poteva avere in potenza. Scene di violenza gratuita che sembrano uscite da 12 anni schiavo non rientrano nella natura del film e fanno solo storcere il naso al pubblico. Sono presenti una serie di sequenze di radicalizzazione e cambi di registro improvvisi: momenti troppo elevati intellettualmente, camei e apparizioni varie, tematiche e sottotrame prese e lasciate con una leggerezza ingiustificabile.

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Omar Sy incarna un uomo del quale percepiamo tutta la triste solitudine, resa visibile ed estremizzata nei suoi vizi. Nonostante la scena filmica sia totalmente dedicata a lui, viene meno la chiarezza delle sue azioni, tante volte estreme, mentre i flashback provano a mettere ordine nella sua testa ma risultano un escamotage esile e poco sentito. L’attore, convincente nelle scene di vita quotidiana, risulta totalmente fuori parte come artista circense. Al povero Footit, interpretato brillantemente da James Thierree, restano le briciole per un personaggio trattato senza alcun riguardo: si cerca di tratteggiare la personalità di Footit in un paio di sequenze che fanno più bene che male, aprendo altre strade e tematiche senza un qualsivoglia senso ultimo. Infine, bisogna notare che il rapporto tra i due diventa ancora più oscuro e mal costruito lontano dal palcoscenico riducendosi quasi ad un battibecco continuo che annoia e non approfondisce minimamente i caratteri.

Sarebbe sbagliato non sottolineare l’estrema cura scenografica (gli ambienti e i costumi sono studiati nei minimi dettagli) ma davanti a una storia con tanto potenziale destabilizzata da due personaggi poco approfonditi quasi non riusciamo ad apprezzare i colori di un gran bel vestito.

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Accomunati dalla solitudine, dalla diversità e dall’accettazione che cercano negli altri ma prima di tutto in sé stessi, Chocolat e Footit erano due personaggi che avrebbero potuto raccontare tanto ad un mondo che pensa di sapere tutto sul razzismo e invece restano testimoni della legge cinematografica per cui una grande storia (anche se vera) non fa essenzialmente un gran film.

Matteo Illiano

PRO CONTRO
  • Non cerca il pathos ad ogni costo.
  • Il razzismo mostrato da un nuovo punto di vista, osservato da chi lo vive ma non vuole vederlo.

 

  • Omar Sy, rigido come un tronco nelle sequenze circensi, non risulta credibile.
  • Il personaggio di Footit è completamente irrisolto.
  • Una serie di sequenze rendono la già precaria natura del film ancora più confusa.
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