Neruda: incontro con il regista Pablo Larrain

Pablo Larraín approfitta di una pausa nella presentazione del suo recentissimo Jackie, applaudito e premiato a Venezia Toronto e chissà, in viaggio verso riconoscimenti più prestigiosi, per fare quattro chiacchiere, nella cornice di un elegante albergo nel centro di Roma, a proposito del suo (pen)ultimo e bellissimo film, Neruda, in uscita nelle sale italiane il 13 ottobre con distribuzione Good Films, entratura cilena per la notte degli Oscar 2017.

Con garbo e simpatia, il regista sudamericano tiene subito a metter in chiaro le cose:

Non credo sia possibile effettuare dei paragoni fra il Cile contemporaneo e quello mostrato nel film, il Cile del 1948. Parliamo di un film d’epoca, ed è chiaro che un artista in queste condizioni non può far finta di non sapere cosa succede dopo, tuttavia non me la sento di insistere. Il mio paese nel ’48 faceva parte di un mondo modernista, che si nutriva di speranze che non ci appartengono più. Un mondo in cui si affidava all’arte il compito di cambiare la realtà, una commistione di arte e politica cui non siamo più abituati.

A questo punto interviene una sottolineatura ironica:

“Un equivalente di questa situazione, oggi, sarebbe un poeta che fa della poesia contro Donald Trump. Impensabile”. E c’è di più “Neruda, senatore, si candidò alle elezioni presidenziali, ma non fu eletto. Pensate che storia, e che film fantastico, se le cose fossero andate diversamente”.

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Ma con i se non si combina molto, soprattutto quando bisogna fare i conti con la realtà, e scegliere l’approccio più giusto per servire una storia comunque problematica.

Sia chiaro che il mio film non è un biopic standard, è un anti – biopic. È un noir anni ’40 e ’50, una black comedy, un western. Era impossibile imbrigliare un personaggio come Neruda in una struttura convenzionale. Troppe sfaccettature nella sua personalità. Troppe fonti scritte: interviste, biografie, persino un’autobiografia. Era al contempo poeta, senatore, appassionato di cucina, di donne, diplomatico… un uomo, in definitiva, che non può essere catturato adeguatamente dalla macchina da presa.

La corretta chiave di lettura arriva nel momento in cui Larraín capisce che:

Il film non riguarda tanto Neruda, una presenza vivissima e ingombrante nel mio paese, che impregna tutto, i corpi, le anime, le cose, quanto piuttosto l’universo nerudiano. Nel momento stesso in cui ho capito questo, mi sono disfatto delle mie paure e mi sono sentito libero.

Il film, presentato nella Quinzaine des réalisateurs al Festival di Cannes 2016 con un notevole successo di critica, segue il celebre poeta cileno nella sua fuga su e giù per il paese natio, nel tentativo di sfuggire alla persecuzione anti comunista del presidente Videla.

Un periodo molto confuso. Nel discorso di accettazione del Premio Nobel, disponibile su YouTube per chi sia interessato, Neruda si domanda se questa fase della sua vita l’abbia realmente vissuta, sognata oppure scritta. Il mio film è la storia di un viaggio, il racconto di due persone in crisi e di come il viaggio cambi questi nostri due protagonisti. Il finale è quasi una love story. Tutto il resto è una scusa.

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Per quanto riguarda l’idea di cinema che sorregge Neruda, il Larraín-pensiero non lascia spazio ad equivoci:

Ho pensato al film cinque anni fa. Abbiamo avuto problemi con i finanziamenti, poi Gael García Bernal, che interpreta il poliziotto che da la caccia a Neruda, non è stato disponibile per un po’, e questo ha tirato le cose per le lunghe. Nell’attesa giro un piccolo film, Il Club, e aspetto il momento giusto per partire. Mio fratello, produttore, mi fa presente che un copione di 160 pagine su Neruda non si vende. Ne devo togliere una ventina. Mi chiudo in una stanza d’albergo con il mio sceneggiatore Guillermo Calderón, e il copione si allunga a 186 pagine. Ma non è un problema. Come diceva Truffaut, o forse Godard, le riprese del film sono una lotta contro la sceneggiatura e il montaggio una lotta contro le riprese. Io parto da un solido copione, vivo di sprazzi di momenti improvvisi mentre giro e assemblo tutto in sala di montaggio. Questo non è un film lineare, è un film su Neruda ma con una struttura borghesiana. E questo perchè – conclude il cineasta cileno – io amo il cinema realista, sul serio. Ma non lo so fare. Io sono un regista d’atmosfera, i miei sono film d’atmosfera. Detesto il cinema che non lascia spazio allo spettatore, che si preoccupa di fornire in anticipo tutte le risposte. Se sono in sala, mi alzo e me ne vado in questi casi. E poi non sopporto certi diktat del cinema realista. La continuità, per esempio. Nei miei film i personaggi vestono sempre allo stesso modo, ma che ci posso fare? All’inizio del film mi tocca sempre consolare e avvertire la segretaria d’edizione, che si occupa di queste cose. Con me, chi fa questo lavoro finisce sempre per impazzire.

A cura di Francesco Costantini

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