Parola di Dio, la recensione

Una brutta parola come fondamentalismo può aiutarci a capire meglio alcune nefaste tendenze del mondo di oggi. Dal Bataclan a Boko Haram, la perversione di un’idea, la sua interpretazione ottusa e assolutista, la sua disonesta deformazione avvelenano il panorama della contemporaneità e colorano il futuro di tinte fosche. Una brutta parola come fondamentalismo si adatta bene all’universo inquietante e tristemente credibile di Parola di Dio.

Lo sfondo del film è la Russia contemporanea, e cristiano (ortodosso) è il pensiero religioso sottoposto in questo caso al pericoloso trattamento estremista.

Il film è prima di tutto la storia di un fondamentalista in formazione, e dell’incredibile influenza che esercita sul mondo che lo circonda. Il tono è abbastanza urlato, rinforzato qui e là da salutari parentesi di umorismo allucinato e dissacrante. A livello sotterraneo, almeno fino ad una sorta di chiarificazione che arriva giusto sul finale, il film offre uno spaccato drammatico – satirico della Russia di Putin. Questo secondo aspetto del film resta, come detto, un po’ soffocato dalla narrazione principale, la sua forza occulta resta in sostanza nascosta per troppo tempo sotto il tappeto e il risultato è una certa perdita di efficacia. Nulla di veramente irrimediabile, tuttavia.

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Da una pièce del tedesco Marius von Mayenburg, i tormenti e le estasi del giovane Veniamin (Peter Skvortsov), incapace di gestire con lucidità le scoperte e le promesse di una sessualità nascente. Nel vuoto e nella frustrazione delle sue difficoltà, emerge un’ossessione morbosa, un pensiero totalizzante che rimette la sua vita in carreggiata. Gettato nel pozzo qualsiasi accenno di razionalità, la via d’uscita dal caos sembra proprio consistere in un’interpretazione delirante e letterale (eufemismo) delle Sacre Scritture: la selezione dei brani è davvero rigorosa nella sua parzialità e disonestà, la sua esegesi il campionario della stupidità al gran completo: niente bikini alle lezioni di nuoto, pollice verso all’educazione sessuale, no al darwinismo… con sorprendente rapidità, le capacità manipolatorie del giovane guadagnano ai suoi deliranti proclami estremisti un ascendente enorme su tutto ciò che lo circonda. La sola Elena (Alessandra Revenko), professoressa di biologia costretta a improvvisarsi baluardo del pensiero razionale, basterà a frenare la marea dannosa e ipnotizzante di una fede cieca e assolutista?

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È bene che la regia di Kirill Serebrennikov, classe 1969, una carriera spesa fra cinema teatro e televisione, si guardi bene dal fornirci risposte definitive in materia. Come potrebbe, anche volendo? Una scelta di regia apprezzabile e adeguata al tipo di storia filmata, è quella di non frammentare la narrazione con un montaggio esasperato. L’utilizzo costante di piani sequenza (che nasce anche per esplicita ammissione dello stesso cineasta da una pigrizia latente) non frantuma l’emozione e permette di analizzare con attenzione ed efficacia l’influenza strisciante del fondamentalismo al lavoro. È qui che riposa l’essenza politica di Parola di Dio: la religione, la sua deformazione come strumenti di potere. L’ideologia che narcotizza le menti e apre la strada all’oscurantismo, e stringe la sua morsa inflessibile sulla società, condizionandola con piena discrezionalità.

Manca forse al film la forza espressiva di un altro interessante ritratto della Russia contemporanea, Leviathan di Andrej Zvjagincev, che con Parola di Dio condivide un passaggio al Festival di Cannes anche se in periodi differenti, con la sua capacità di coniugare l’epico al politico.

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Nel complesso, il film ha una certa potenza, il vantaggio di metter le mani su un tema di scottante attualità e il coraggio di affrontarlo senza vigliaccherie. L’impressione è che manchi sempre quel qualcosa, un’idea di regia o uno spunto narrativo capace di sollevarne le sorti e trasformarlo in un’esperienza davvero sconcertante. Questo non succede, consegnando allo spettatore un’opera magari non clamorosa, ma intensa e sostanzialmente riuscita.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
I due protagonisti, pur rappresentando inequivocabilmente due distinte maniere di vedere il mondo, non agiscono mai come simboli di qualcosa, ma come esseri umani. Le parole nella loro bocca sono imperfette, reali, autentiche. Una parentesi thriller che emerge nel finale, funzionale ad esigenze drammatiche, che ha un po’ l’effetto straniante del film nel film.

 

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