Paterno, uno scandalo all’americana nell’ultimo film di Barry Levinson

Tra gli ospiti internazionali dell’edizione appena conclusasi del Festival di Karlovy Vary segnaliamo Barry Levinson, protagonista di una mini-retrospettiva di tre film: l’imprescindibile Rain Man (1988), il satirico Sesso & potere (1997) e il recentissimo Paterno (2018), un tv movie HBO trasmesso la prima volta lo scorso aprile e già disponibile in Italia su Sky.

Nonostante le tumultuose evoluzioni in atto nel mercato e nell’estetica televisiva, per la regina delle cable-tv quello del film biografico basato su fatti di cronaca resta un format imprescindibile: un genere di antica tradizione, aggiornato al gusto contemporaneo da massicci investimenti in qualità cinematografica. Per il regista premio Oscar, si tratta, non a caso, della terza produzione di questo tipo, dopo You Don’t Know Jack: Il dottor morte (2010), che valse ad Al Pacino un Golden Globe e un Emmy, e The Wizard of Lies (2017), in cui l’altro mostro sacro Robert De Niro ha interpretato il truffatore Bernard Madoff.

Qui, di nuovo Al Pacino veste i panni di Joe Paterno, l’allenatore più popolare e vincente nella storia del football americano di livello universitario, alla guida dei Penn State Nittany Lions per ben quarantacinque anni, dal 1966 al 2011. La serie teen Friday Night Lights (2006-2011) ci ha insegnato come, negli Stati Uniti, i campionati nazionali scolastici e universitari godano di un seguito paragonabile a quello del professionismo milionario della National Football League. E il prologo di questo film è quasi un seguito ideale dell’indimenticabile Ogni maledetta domenica (1999): tra Tony D’Amato e Joe Paterno ci sono quasi vent’anni di differenza, istrionico il primo, taciturno il secondo, ma con lo stesso infallibile fiuto per la vittoria. La vittoria numero 409, record assoluto e ineguagliabile della Football Bowl Subdivision, arriva contro l’Illinois il 29 ottobre 2011, proiettando l’anziano coach ottantaquattrenne nella leggenda.

Ma il passaggio dall’altare alla polvere è repentino e in questa rapidità c’è il senso di questo film e di questa storia vera. Undici giorni dopo la vittoria 409, Paterno è licenziato in tronco dall’Università della Pennsylvania: l’ex allenatore in seconda Jerry Sandusky è stato accusato, con numerosi riscontri, di ripetuti abusi sessuali sulle più giovani reclute della squadra; e Paterno, nella sua posizione, non poteva non sapere. Morirà meno di tre mesi dopo il licenziamento, per le complicanze di un cancro.

Siamo dunque dalle parti de Il caso Spotlight (2015). Riley Keough veste i panni di Sara Ganim, la giovane giornalista del quotidiano locale The Patriot News che ha avviato l’inchiesta su Sandusky; ma il racconto resta focalizzato sul vecchio “JoePa” e sulla pressione mediatica che di colpo lo investe. In effetti, non esistono ancora oggi prove definitive del fatto che Paterno fosse in qualche modo a conoscenza degli abusi e che, dunque, abbia omesso di denunciare i fatti. Ben trecento dei suoi ex giocatori hanno, non a caso, attaccato questo film, per non aver assunto una posizione nettamente innocentista. Ma questo è un dramma, non un’agiografia, né un documentario. E il dramma sul volto di Al Pacino è quello di un uomo ignaro del delitto, ma allo stesso tempo divorato dal senso di colpa; un uomo passato in un sol colpo da simbolo di un’epopea nazionale – quella del football – a simbolo, e capro espiatorio, di una classe dirigente corrotta e impunita. Volto della ribellione, agli esordi negli anni della New Hollywood, questo Pacino senile e triste è oggi il volto della disillusione dell’era di Donald Trump.

Si parla di football, è vero, ma come nel caso Weinstein la scoperta della stortura del sistema è improvvisa ed estensiva; le conseguenze di questa scoperta sono poi, per molti aspetti, irrazionali e spietate. Più in generale, la lacerante contraddizione vissuta da JoePa è, ancora una volta, metafora di una nazione dove epica e senso di colpa, dal western al noir, per finire col blockbuster, vanno sempre a braccetto. Levinson e Pacino, se ce ne fosse bisogno, confermano anche qui di possedere il vero DNA di Hollywood: la capacità di intrattenere raccontando una singola storia e, allo stesso tempo, qualcos’altro di molto più grande.

Enrico Platania

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