Rambo: Last Blood, la recensione

Nato dalla penna di David Morrell nel romanzo Primo sangue (First Blood, 1972), John Rambo è probabilmente la più riconoscibile ed efficace icona action anni ’80, il simbolo di un’America forte, partecipativa, risolutiva, sempre pronta a riportare l’ordine dove ce ne fosse bisogno… nonostante questo volesse dire utilizzare le maniere forti. In pratica, Rambo è stato il simbolo degli Stati Uniti dell’amministrazione Reagan, un’immagine ben precisa che il Paese voleva dare ai suoi abitanti e a chi lo guardava dal di fuori.

Una lettura politica della saga con Sylvester Stallone su cui si è speculato molto, soprattutto col senno di poi, discutibile per qualcuno, perfettamente lucida nel restituire l’immagine di una Nazione per altri, ma è innegabile che la saga di Rambo, al di là di qualsiasi giudizio qualitativo o socio/politico, è tra i capisaldi del cinema d’azione americano, nonché il franchise (insieme a Rocky) su cui il grande Sylvester Stallone è riuscito a costruire una carriera di successo e per il quale ancora oggi è amato da miliardi di spettatori.

Oggi quella saga, che avevamo lasciato con il quarto film nel 2008, si completa di un quinto – e sicuramente ultimo – capitolo, Rambo: Last Blood in cui Stallone riprende il ruolo di John Rambo creando una continuità perfetta con i precedenti film della saga, sia a livello tematico che nell’evoluzione del personaggio, nonché in quella lettura socio/politica di cui si diceva sopra.

Rambo: Last Blood

Chi conosce il romanzo First Blood, il film Rambo e la saga che ne ha fatto seguito sa quanto il film di Ted Kotcheff fosse differente dal romanzo di David Morrell e quanto il primo film poi differisse dai suoi sequel, in particolare Rambo II – La vedetta e Rambo III. Quella che era inizialmente una storia di denuncia verso le istituzioni che non considerano con il dovuto rispetto e riguardo i reduci di guerra si trasformava in un lucidissimo film sul disagio da stress post-traumatico, probabilmente uno dei tre film più importanti ed efficaci sui reduci del Vietnam (insieme a Il cacciatore e Taxi Driver). C’è una poetica dietro Rambo di Ted Kotcheff che mostra, in primis, la vulnerabilità dell’essere umano, l’impotenza davanti al concatenarsi degli eventi, l’ottusità delle istituzioni malate da una visione fascista della società. Tutto questo si era trasformato nell’esatto opposto quando nel 1985 George Pan Cosmatos si mise al timone del sequel, un ipertrofico action bellico perfetto simbolo di quello che il Cinema di allora offriva e il pubblico chiedeva. Rambo II è un film d’azione eccezionale, spettacolare e sufficientemente iconico da farsi simbolo di un genere, ma sostanzialmente era un’altra cosa in confronto a First Blood e il suo successo portò la saga in una direzione che mai avremmo inizialmente immaginato.

Rambo

Ci vuole un invecchiato Stallone, voglioso di riprendersi il successo con i personaggi che lo hanno fatto amare dal pubblico, a riposizionare l’ago della bilancia con John Rambo, quarto capitolo che Stallone stesso ha diretto nel 2008, dove la visione nichilista del primo film torna a farsi assaporare senza, però, escludere l’assetto bellico e l’azione forsennata dei successivi film. John Rambo, inoltre, alzava tantissimo l’asticella della violenza sporcandosi di sangue a tal punto da spostare il target della saga verso gli amanti dello splatter.

Rambo: Last Blood segue coerentemente tutta l’epopea di John Rambo, di film in film, in ogni sua incarnazione e trasformazione, dando vita a un robusto revenge-thriller che ha l’aria malinconica del primo Rambo, la lettura socio/politica del secondo e del terzo, la vis ultra-splatter del quarto.

John Rambo vive ormai da anni nel suo ranch di famiglia in Arizona, in compagnia dell’amica e tuttofare Maria Beltran e la nipote di lei Gabriela, rimasta orfana di madre e curiosa di conoscere un padre che l’ha abbandonata da bambina. John alleva cavalli, costruisce armi, scava tunnel sotto la sua tenuta, finché viene insospettito dalla perdita di ogni contatto di Maria con Gabriela che, nonostante gli ammonimenti, ha deciso di recarsi in Messico per andare a conoscere suo padre. Gabriela è finita nella rete di un cartello che traffica in giovani donne da destinare alla prostituzione e John Rambo è determinato a ritrovare la ragazza e punire come meritano gli uomini che l’hanno rapita. Sarà un bagno di sangue.

Rambo

Passato il testimone della regia ad Adrian Grunberg, che aveva già diretto un film simile con Viaggio in Paradiso interpretato da Mel Gibson, Sylvester Stallone si dedica a una efficacissima caratterizzazione del suo John Rambo, ormai vecchio (anche se mai fuori forma), capello corto, fascia appesa al chiodo e finalmente felice di dedicarsi agli affetti famigliari, nonostante non abbia nessun vincolo di sangue diretto. Maria e Gabriela sono la sua famiglia: la prima è come una affettuosa e premurosa sorella, la seconda come una figlia che non ha mai avuto ma che ha cresciuto e accudito nel migliore dei modi. John Rambo mostrato in questo film è molto diverso da quello che conoscevamo, gli manca la rabbia, l’aggressività, perfino quell’aria un po’ frastornata da chi ha vissuto (e continua a vivere) fuori dal mondo. Finalmente John ha raggiunto il suo obiettivo, la felicità: è integrato. Va da se che tale idillio è destinato ad essere infranto e al personaggio accade la cosa peggiore che potesse immaginare, viene toccata la sua “famiglia”, nel peggior modo possibile e il buon John tira fuori quella rabbia sopita, quell’aggressività che lo ha reso una delle più efficaci macchine da guerra statunitensi.

Nel momento in cui Rambo mette piede in Messico, la situazione precipita in maniera irreversibile e lo schermo si riempie di atrocità. L’azione a cui eravamo abituati lascia il passo a un cupo e violentissimo film di vendetta, in cui gli effetti che le armi, le percosse e perfino l’eroina hanno sul corpo umano è mostrato nel modo più crudo possibile fino a raggiungere la deflagrazione nel climax finale. Rambo: Last Blood finisce in territorio Cane di paglia, con una spettacolarizzazione della violenza che farà indiavolare i benpensanti e distogliere lo sguardo ai più impressionabili, dando invece una conclusione degna a chi, in tutti questi anni, ha visto crescere, trasformarsi e invecchiare il personaggio interpretato da Sylvester Stallone che, preso atto che non è più un giovanotto, ha trovato il giusto tono con cui chiudere la saga.

Rambo: Last Blood

Ovviamente Rambo: Last Blood non è un film di “sostanza”, c’è qualche leggerezza di troppo nella sceneggiatura, soprattutto sulle modalità di attraversamento del confine Messico-USA, e non tutti i personaggi hanno una scrittura pregnante, si veda il padre di Gabriela e la giornalista interpretata da Paz Vega. Anche la lettura politica che lo vedrebbe idealmente trumpiano, così come la saga è sempre stata filo-repubblicana, dato il taglio only-villains dato ai messicani privi di contaminazione americana, è più un presto per far chiacchiera che un cristallino schieramento. Insomma, quest’ultimo Rambo, in linea con buona parte della saga, è più orientato verso l’intrattenimento puro… ma se non ci si pongono troppe domande sul realismo e si è pronti ad abbracciare una mattanza cinematografica degna del miglior horror/splatter, Rambo: Last Blood non può deludere.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • La degna conclusione di una saga che ha fatto la storia del cinema.
  • Sylvester Stallone ha giustamente ridimensionato il suo personaggio alla sua età.
  • C’è tanta di quella violenza fumettosa da far la felicità degli splatterofili (di cui chi scrive fa parte).
  • Qualche eccessiva semplificazione nella scrittura che va a incidere sul realismo.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Rambo: Last Blood, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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