Rapina a Stoccolma, la recensione

Nell’estate del 1973, nella Sveriges Kreditbank di Stoccolma si verificò un caso eclatante: Jan-Erik Olsson entrò armato in banca, non era interessato ai soldi ma alla liberazione dell’amico Clark Olofsson, detenuto in un carcere locale. Jan-Erik, raggiunto da Clark, prese in ostaggio quattro persone per ben sei giorni, poiché il governo svedese impediva al rapinatore di lasciare la banca con gli ostaggi. Una notizia che fece il giro del mondo per il paradossale impasse in cui si era arenata e sulla quale fece chiarezza, un anno dopo,  un articolo del New Yorker scritto da Daniel Lang e intitolato The Bank Drama, da cui emerse un dato che ha dell’incredibile: gli ostaggi, in particolare Patty Hearst, entrarono talmente in empatia con i rapitori da collaborare con loro volontariamente per il raggiungimento dello scopo, che a quel punto era diventato un affare comune contro l’ottusità del sistema di governo e della polizia. Questo particolare episodio ha dato vita a quel fenomeno che oggi conosciamo come Sindrome di Stoccolma, una situazione in cui gli ostaggi finiscono per legarsi ai loro sequestratori mettendosi anche contro le autorità.

Una storia vera, assurda quanto basta e sicuramente affascinate da prestarsi meritevolmente ad essere raccontata al cinema. Lo ha pensato il regista, sceneggiatore e produttore Robert Budreau che, in associazione con la Blumhouse di Jason Blum, ha raccontato questa vicenda in Rapina a Stoccolma.

Non il classico caper movie, anche se mentre scorrono i minuti è impossibile non ripensare al capolavoro di Sidney Lumet Quel pomeriggio di un giorno da cani, piuttosto un divertissment con un’ottima costruzione narrativa che a tratti si adagia sull’infallibile dinamica che sta alla base del genere.

Rapina a Stoccolma non perde tempo in preamboli, incipit ne, successivamente, in divagazioni, ma va diritto al punto: inizia con il protagonista pronto ad entrare in azione e prosegue con sguardo unico dentro la banca, inquadrando per circa 90 minuti cosa accade nel caveau della Sveriges Kreditbank, dove i due sequestratori e i tre ostaggi (nel film ce n’è uno in meno) cercano un modo per uscire da una situazione disperata.

Budreau ha l’ottima idea di focalizzarsi su pochi personaggi, una situazione circoscritta così da creare il sicuro coinvolgimento dello spettatore che riesce facilmente ad affezionarsi ai protagonisti, a empatizzare con loro. Ben gioca, in quest’ottica, lasciare sullo sfondo la polizia e portare in scena le autorità solo per mostrare le clamorose azioni sbagliate di un capo della polizia che vuole gestire con il pugno di ferro la situazione per farsi valere dinnanzi agli occhi della politica, ma assolutamente privo di quel fattore umano fondamentale per negoziare con dei sequestratori. Anche il paradosso di una Svezia in quegli anni esempio di socialdemocrazia che nega il dialogo con i malviventi, nonostante ci siano di mezzo dei civili in pericolo, è l’esempio lampante di un mondo – tutto – in balia delle contraddizioni, della confusione di intenti, del mancato dialogo.

Però ci si rende conto anche che Rapina a Stoccolma è tutto qui: un caper movie non convenzionale perché adotta un linguaggio più brillante, si contamina a piccole dosi con la commedia, ma che procede esattamente come ci si aspetterebbe, ricalcando le fasi del genere. Anche la “Sindrome di Stoccolma” a cui il film si appella è meno pregnante di quello che ci potremmo aspettare, ma forse è meglio così per rimanere su territori di verosimiglianza senza calcare la mano su quei sentimentalismi che, in casi come questo, comprometterebbero la riuscita di un film.

Ottima Noomi Rapace nel ruolo dell’ostaggio Bianca Lind, quella che maggiormente entra in sintonia con i sequestratori, un’attrice di grande talento e fascino che forse è stata un po’ dimenticata dalle majors. Nell’altro ruolo di rilievo abbiamo Ethan Hawke, ormai uomo di fiducia della Blumhouse, che da vita a un criminale costantemente sopra le righe che si lascia dominare dalle emozioni ma dal temperamento sempre incredibilmente lucido. Al duo si aggiunge Mark Strong come complice del sequestro, anche se stavolta la sua presenza – con parruccone – non riesce proprio a lasciare il segno.

Rapina a Stoccolma

Un film asciutto e minimale, efficace nel tenere costantemente alto il ritmo e parlare allo spettatore seguendo i dettami dell’intrattenimento di genere: Rapina a Stoccolma convince ma forse non ha abbastanza personalità da poter rimanere negli anni come nuovo punto saldo del caper movie, fermo ormai al 2006, anno di Inside Man di Spike Lee.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Ritmo sempre costante.
  • Noomi Rapace è bravissima.
  • Riesce a coinvolgere lo spettatore dal primo all’ultimo minuto.
  • Ethan Hawke sopra le righe potrebbe creare qualche resistenza nello spettatore più esigente.
  • Non racconta nulla di realmente ne nuovo ne lo fa con uno stile particolare, quindi è difficile che Rapina a Stoccolma possa lasciare il segno nel suo genere.
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Valutazione: 6.5/10 (su un totale di 2 voti)
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Rapina a Stoccolma, la recensione, 6.5 out of 10 based on 2 ratings

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