Rapito, la recensione del film di Marco Bellocchio

Shema’ Ysrael, Ado-nai Eloheinu, Ado-nai ehad.

Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno.

Questa frase è la premessa dello Shemà, forse la più importante preghiera ebraica, e si recita mattino e sera coprendosi il volto con la mano.

Così il piccolo Edgardo Mortara è stato educato fin dalla sua nascita, in una famiglia ebraica della Bologna di metà 1800.

Una Bologna che si trova sotto lo stato pontificio e sotto le regole e le leggi del Papa Re Pio IX.

Una di queste leggi prevede che i bambini battezzati, e dunque cristiani, non possano essere cresciuti nelle famiglie ebree. Questo è proprio quello che accade alla famiglia Edgardo, strappato con forza alla propria famiglia da parte del tribunale ecclesiastico a causa del battesimo ricevuto a sei anni, di nascosto dalla famiglia da parte della domestica, e spedito a Roma.

Così, sullo sfondo dell’Italia divisa del 1858, la madre e il padre di Edgardo cercano in tutti i modi di riportare a casa il figlio, trasformando una vicenda familiare in una vicenda politica sovrannazionale.

Rapito non è un film facile, perché avere la delicatezza di giostrarsi sulla sottile linea tra identità e fede, tra diritto e legge, tra ebraismo e cattolicesimo non è cosa da poco; però Marco Bellocchio riesce a disegnare con grazia e potenza un affresco di personaggi ricchi e carichi di carattere.

Nel viaggio da Bologna a Roma, Edgardo e le sue accompagnatrici, che sembrano quasi due streghe che con i lunghi vestiti e i cappelli larghi lo coprono d’ombra, si imbattono in un funerale ed è lì che c’è il vero incontro tra il piccolo bambino e l’iconografia del crocifisso.

Quello è Gesù, è morto per i nostri peccati. L’hanno ucciso gli ebrei”. C’è molta violenza in questa frase, detta ad Edgardo una volta arrivati a Roma.

Chi è cresciuto con un’educazione cristiana cattolica conosce molto bene il timore che suscita la figura di Cristo in croce e come il catechismo abbia un’impostazione improntata tutta sul dolore, la rinuncia, l’espiazione. Ci si può facilmente sentire come Edgardo che, arrivato a Roma, non fa altro che vedere le immagini e l’iconografia di un Cristo ebreo, morente e straziato dal dolore.

Proprio il crocifisso è una figura ricorrente per tutta la durata del film, da quelli in chiesa alla piccola croce che porta al collo Edgardo. In un confronto con la madre (interpretata da Barbara Ronchi), sarà proprio la donna a strappargli la catenina e gettarla a terra, insistendo affinché il proprio figlio non perda e non si dimentichi chi egli sia. Tra le lacrime, il bambino le confesserà “prego lo Shemà tutti i giorni, al mattino e alla sera”.

Non si può far a meno di sentirsi coinvolti dalla storia, che ricordiamo essere una storia vera, e sentirsi fremere di indignazione, rabbia e tristezza davanti agli eventi che succedono sullo schermo.

Il piccolo Enea Sala è bravissimo e dà vita ad un Edgardo così ricco di sfaccettature ed emozioni che gli si può solo augurare, nonostante la tenerissima età, di crescere e affinare anche più il suo, innegabile, talento.

Una nota di plauso all’eccezionale Paolo Pierobon che veste i panni di Pio IX e ne incarna il potere, il timore, l’arroganza e la violenza.

Avrei voluto vedere più presente il personaggio di Marianna Padovani Mortara, la madre del bambino, che invece viene relegata un po’ agli angoli della narrazione pur essendo un personaggio fondamentale a cui Barbara Ronchi riesce a dare profondità e potenza. Fausto Russo Alesi interpreta, infine, il padre di Edgardo e si trova a combattere anche in sede legale per il diritto di vedersi riportato indietro un figlio che gli è stato strappato via ingiustamente.

Nonostante la ricchezza di costumi e di ambientazioni, il film si mostra poco coraggioso a livello registico e, a partire dal formato scelto, ha un assetto visivo e di messa in scena molto televisivo. La potenza della storia raccontata poteva essere ancor più valorizzata con inquadrature, luci e movimenti che invece qui si limitano al compito formalmente ben svolto, insomma a “portare a casa il lavoro”. Peccato perché questa è l’unica pecca di un film altrimenti eccellente, una pecca che comunque non toglie valore e fruizione a Rapito.

Infine, non posso che rallegrarmi per la scelta del cambio del titolo originale che in fase di lavorazione era La Conversione. Il passaggio a Rapito è indicativo proprio del carattere e della spinta del film, perché la storia racconta un atto violento e in tale modo va ricordato e chiamato.

Il film è nelle sale italiane da giovedì 25 maggio distribuito da 01 Distribution, dopo essere stato presentato in concorso al Festival di Cannes.

Agata Brazzorotto

PRO CONTRO
  • La capacità e la delicatezza di mescolare una storia reale con un’analisi del ruolo della Chiesa e del forte legame tra identità e fede.
  • Le prove attoriali di tutti, che sono ottime e danno profondità ad ogni personaggio.
  • L’assetto visivo televisivo, che tradisce la destinazione finale del prodotto.
  • Il terzo atto è più debole degli altri due, più seduto e meno interessante.
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