Ritratto della giovane in fiamme, la recensione

Francia, 1770. Marianne (Noemie Merlant), pittrice di talento, riceve l’incarico di realizzare il ritratto di nozze di Héloise (Adele Haenel), giovane donna appena uscita dal convento per sposare, su consiglio della madre (Valerio Golino), un nobile milanese. Marianne è un tipa tosta, modernissima e fuori dal suo tempo. Una donna abituata a lottare. Ce lo dimostra fin dalla prima scena, che racconta il viaggio verso una remota isola bretone. La pittrice si tuffa, con indosso l’ingombrante abito settecentesco, nelle acque agitate e gelide, per salvare la sua cassa caduta dalla barca, contenente il necessario per il suo lavoro. Dal canto suo, la bella Héloise tenta di resistere al destino, rifiutando di sposarsi e di posare per il ritratto. Marianne cerca quindi di osservarla, fingendosi una compagna di passeggiate, per poterla dipingere di nascosto.

Ritratto della giovane in fiamme, di Céline Sciamma, premio per la miglior sceneggiatura a Cannes, è un’ode all’amore, alla libertà, alle donne ed è un film da vedere, rigorosamente in sala, dal 19 dicembre, grazie a LuckyRed.

Quest’ultima fatica della Sciamma è un’opera d’arte che raccoglie, con estrema cura dell’immagine ed equilibrio estetico, la ricerca dell’identità, non solo sessuale, ma totale (affermare che si tratti di mera ricerca dell’identità sessuale, significherebbe sminuire, ingiustamente, il significato di questo lavoro). La regista ci parla di una ricerca dell’io che supera il tempo e lo spazio. Non è detto che qualcosa che risale a tanto tempo fa sia meno rilevante oggi. Si parla di storie poco conosciute, quelle delle artiste donne e delle donne in generale. La narrazione inizia proponendo una variazione elegante ma ovvia, sui temi della disparità di classe e di genere visti dal XVIII secolo, per poi diventare altro, in cui, perché no, anche gli uomini potranno riconoscersi. Il film rilegge il mito di Orfeo e Euridice evocando Lezioni di piano di Jane Campion, dal quale eredita leziosità, fotografia e ambientazione: la splendida costa della Bretagna, protagonista indiscussa di molte straordinarie sequenze.

 “Quando mi sono immersa nello studio della documentazione per il film, sapevo pochissimo della realtà delle artiste di quell’epoca. Conoscevo le più famose di cui è provata l’esistenza: Elisabeth Vigéè Le Brun, Artemisia Gentileschi o Angelica Kauffman. La difficoltà a raccogliere informazioni e materiale d’archivio – racconta la regista – non ha impedito però che la consistente presenza di donne nel mondo dell’arte della seconda metà del XVIII° secolo emergesse con forza. Le donne pittrici erano numerose e avevano un certo successo, soprattutto grazie alla moda dei ritratti. In questo contesto un centinaio di pittrici hanno avuto vite e carriere di successo. Marianne, invece, non è mai esistita. Mi è sembrato giusto raccontare un personaggio di fantasia, anziché scegliere una figura ispiratrice, realmente vissuta. Inventarne una per omaggiarle tutte”.

Come è possibile allora che tutte queste donne siano scomparse dalla storia dell’arte? In realtà molti dei loro lavori appaiono nelle collezioni dei più importanti musei del Mondo: ma sono rimaste escluse dalle cronache e dai resoconti storici, relegate al quasi totale anonimato ed emarginate dalla storia dell’arte. Centinaia di donne che hanno prodotto capolavori condannati a restare nascosti.

Raramente un film in costume risulta efficace nell’interrogare il nostro presente con libertà e naturalezza, evocando anche le ragioni storiche della scarsa presenza femminile, appunto, nelle arti. La Marianne di Cèline Sciamma è un personaggio a tratti anacronistico e ruspante. È una donna che fuma la pipa (sempre con innata eleganza, sia chiaro!) e tiene le mani in tasca. Il che, oggi, potrà sembrarci normale ma la visione di una donna, con abiti del 1700, che tiene le mani in tasca, fidatevi, ha un effetto straniante.

Ed un motivo c’è! Creare i costumi d’epoca per un film è sempre una grande impresa. La regista ha scelto un’unica “uniforme” per ciascun personaggio, cosa su cui la costumista Dorothée Guiraud si è concentrata, per creare una sorta di caratterizzazione su misura. Per far ciò si è riflettuto sul significato degli abiti. La scelta del taglio e dei materiali, in particolare del loro peso, implica allo stesso tempo elementi di sociologia del personaggio e verità storica. L’abito di Marianne, infatti, ha le tasche e le ha non solo per assecondare l’atteggiamento e le pose della pittrice, ma perché alla fine del ‘700 le tasche, per le donne, sarebbero state proibite e sarebbero sparite. Proprio per questa chicca, mai come in questo film, i costumi esaltano psicologia e status dei personaggi. Grazie al suo abito Marianne diventa una figura antica ma, allo stesso tempo, assolutamente moderna, fatta riemergere dall’oblio. Quasi resuscitata. Con quelle mani in tasca si erge a rappresentante di innumerevoli donne dimenticate, di modernissime eroine della quotidianità settecentesca.

Grazie ad una fotografia sublime che immobilizza il tempo ed attinge da una tavolozza, volutamente limitata, tinte e sfumature di rara profondità e ad una confezione minuziosamente ricostruita a livello di singole inquadrature, giochi di specchi e movimenti di macchina pacati, capaci di catturare l’attimo attraverso frammenti di pittura che sembra autentica, tutte le inquadrature del film evocano oli su tela. Ogni scena è un dipinto. Lo schermo si trasforma in tela e la Sciamma diventa essa stessa una pittrice alla ricerca della fonte di luce esatta.

Ritratto della giovane in fiamme è un film in cui parlano le immagini. Le parole vengono pronunciate solo se necessarie. Anche la musica, a parte due momenti musicali diegetici che giocano un ruolo nella storia, viene meno. Non essendo presente la colonna sonora a legare il tutto, sono le scene stesse, il montaggio e la combinazione delle riprese a dover creare il ritmo. Realizzare un film senza musica è un’impresa da cui Céline Sciamma esce vincitrice anche se a tratti si palesa, durante la visione, l’ossessione per questa ricerca ritmica ed un certo compiaciuto formalismo, una gabbia dorata dalla quale in alcuni passaggi, il film non si libera.

Nel complesso Ritratto della giovane in fiamme è un ottimo lavoro, coerentemente lento e dai tempi dilatati giustificati. Un’opera con ben tre bei finali, che si avvale del lavoro di maestranze del cinema (con particolare plauso al reparto fotografia, costumi e scenografia) che sanno, decisamente, fare il proprio mestiere!

Ilaria Berlingeri

PRO CONTRO
  • La fotografia e i costumi.
  • I tre finali.
  • La scena del “sabba” sulla spiaggia.
  • A tratti ridondante ed estremamente compiaciuto.
  • La narrazione resta intrappolata in una bellissima gabbia dorata per liberarsi solo in alcune sequenze.
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