Ritual – Una Storia Psicomagica, la recensione

Lia incontra Viktor e se ne innamora. Lei è emotivamente fragile, lui un uomo d’affari sadico e narcisista e tra i due si istaura un rapporto serva/padrone dai contorni piuttosto netti. Quando Lia rimane incinta, Viktor la costringe ad abortire, ma la psiche già fragile della ragazza va del tutto in pezzi e in seguito a un crollo nervoso, decide di trasferirsi da sua zia Agata, nella campagna veneta. La donna è una nota guaritrice della zona, esperta in psicomagia, che tenta di praticare anche su sua nipote per guarirla, ma qualche cosa va storto…

La prima domanda che assalirà lo spettatore che si avventura nella visione di Ritual – Una storia psicomagica sarà probabilmente: Cos’è la psicomagia?

Posizionata in quel confine che unisce magia e scienza – anche se non riconosciuta dalla comunità medica -, la psicomagia è una pratica utilizzata da alcuni terapeuti per guarire ferite psicologiche che normalmente verrebbero curate dalla psicoterapia. In genere si agisce sull’inconscio dell’individuo “turbato” per liberarlo dai traumi, spesso facendo in modo che il paziente stesso dialoghi con il suo ego, superando così la sua parte cosciente e andando a risalire alla causa del “blocco”. Il terapeuta chiede al paziente di compiere un’azione ben precisa, spesso dal forte valore simbolico in base al caso, senza però imporsi mai come guida del soggetto. La psicomagia affonda le sue origini nelle tradizioni popolari e rituali degli sciamani e guaritori, ma è solo negli anni più recenti che ha assunto la connotazione artistica a cui oggi spesso è accomunata grazie al regista cileno Alejandro Jodorowsky, che ne è rimasto affascinato e l’ha fatta propria, scrivendone (La danza della realtà, Psicomagia) e mettendola in pratica come disciplina terapeutica.

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Proprio dalla concezione jodorowskiana nasce Ritual che mutua dalle teorie del regista di Santa Sangre il termine “psicomagia” applicandolo al linguaggio del cinema thriller. Le cronache ci raccontano che i due registi di Ritual, Luca Immesi e Giulia Brazzale, entrambi esordienti, abbiano ricevuto il consenso dello stesso Jodorowsky sia per l’utilizzo del termine “psicomagia”, sia per la sceneggiatura del film, tanto che il regista cileno appare anche in un cammeo onirico nel film, nel ruolo del defunto zio della protagonista.

Ma non commettete l’errore di collegare inconsciamente Ritual al cinema di Jodorowsky, perché si tratta di cose completamente differenti. Immesi e Brazzale si ancorano, piuttosto, alla tradizione del thriller psicologico, quella più classica, che si contamina con elementi soprannaturali attribuibili più che altro alla superstizione e al folklore del nord Italia. Non è un caso, infatti, se la sceneggiatura, scritta dagli stessi registi, sia stata supervisionata da Jeff Gross, che ha nel curriculum collaborazioni con Roman Polanski per lo script di Frantic e Luna di fiele. Si respira, in effetti, un’accentuata aria polanskiana nel corso dell’Odissea che Lia vive, un percorso irto di ostacoli rappresentati per lo più dai sui blocchi psicologici che le impediscono di reagire a un compagno aguzzino e, di conseguenza, di manifestare apertamente la sua sete di maternità. Dopo i primi venti minuti introduttivi, infatti, il film vira esclusivamente sull’idea di rendere per immagini concrete il trauma abortivo di Lia, che si materializza attraverso psicosi allucinatorie che – banalmente – prendono la forma di bambini biancovestiti e fantasmatiche mamme che cantano ninna nanne.

E qui Ritual mostra i giganteschi limiti che purtroppo sono comuni a tante produzioni italiane indipendenti, ovvero la mancanza di idee necessarie a supportare adeguatamente un lungometraggio.

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L’opera di Immesi e Brazzale si incarta presto su se stessa, reiterando per 95 minuti un concetto chiarissimo già nei primi 20. C’è la dimensione folkloristica assolutamente interessante e necessaria a tenere viva l’attenzione, ma si tratta di un orpello che vive sullo sfondo, incentrando completamente l’attenzione sui tormenti psicologici di Lia. Quello che non convince in questa scelta è che Lia non affronta un percorso, ma si mostra disturbata fin dall’inizio, confermando con il passare dei minuti solo l’impressione che aveva già destato. Abbiamo, dunque, una protagonista “matta” che è tale fin dall’inizio e un comprimario sadico che è così fin dalla sua comparsa. Non c’è crescita, non c’è evoluzione ne involuzione nei personaggi e nella vicenda, con la conseguenza che l’intero film non riesce a catturare, a risultare interessante, compreso il telefonatissimo epilogo.

La maggiore consolazione sta, appunto, nella messa in scena delle usanze tipiche della ruralità scaramantica veneta, con il personaggio della zia guaritrice che è senza dubbio il meglio riuscito, ma a questo punto valeva la pena incentrare l’intera vicenda su questo, evitando l’opprimete e poco originale storia della maternità negata.

Lodevole l’interpretazione di Desirée Giorgetti (Morituris) nel ruolo della protagonista, una performance molto fisica, palesemente sentita e intensa, mentre appare decisamente mediocre Ivan Franek (La grande bellezza; Tulpa) nei panni del sadico Viktor, ricordandoci ancora una volta che certi attori andrebbero doppiati.

Ritual – Una storia psicomagica arriva nei cinema italiani l’8 maggio distribuito da Mariposa Cinematografica.

Roberto Giacomelli   

PRO CONTRO
  • Per essere un’autoproduzione indie, tecnicamente è molto valido.
  • Desirée Giorgetti è brava e perfettamente calata nel personaggio.
  • Interessante il discorso sulle tradizioni popolari.
  • Il punto di forza del film, il folklore veneto, passa troppo in secondo piano.
  • Narrativamente poco originale, ridondante e riesce a stancare in fretta.
  • Ivan Franek avrebbe seriamente bisogno di essere doppiato.
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