Gli Invisibili, la recensione

Le strade di una torbida e fredda New York, sono gli spazi apparentemente sconfinati che delimitano la prigione in cui si muove George Hammond (Richard Gere), senzatetto privo di un passato, un codice fiscale e un certificato di nascita che potrebbero, come la legislazione americana prevede, “rimetterlo al mondo”, assegnandogli un’identità che gli permetterebbe, quantomeno, di provare a ricominciare. Ma è proprio questo il nocciolo della questione: George, così disperato e ridotto ai minimi termini della sua ignota esistenza, non ha la minima intenzione di provare ad “aiutarsi”: ha sì la costanza di compatirsi da solo e di rifiutare la sua condizione di “homeless”, ma non quella – strano ma vero – di attrezzarsi di una buona dose di umiltà e farsi ascoltare dalla figlia abbandonata anni addietro (Jena Malone) e che rappresenta per George l’unico appiglio che gli rimane per rimanere ancorato alla realtà.

Time Out of Mind  – che in Italia diventa Gli Invisibili – vuole essere un documentario sociologico, un’indagine sulla situazione dei senzatetto e di come siano assistiti nei centri di assistenza di New York che, in questo momento, è l’unica città degli Stati Uniti dove i così detti “homeless” devono necessariamente, per legge, ricevere soccorso in tali strutture. Richard Gere ha dunque vestito i panni di una di queste 20.000 anime invisibili, “travestendosi” da barbone e vagando per ventuno giorni (il tempo di durata delle riprese) per la Grande Mela, ripreso da telecamere nascoste e poste a distanza, in modo che non fosse riconosciuto dalla gente e per rendere ancor più veritiere tutte le sue azioni. Queste ultime sono rigorosamente immortalate dalla fotografia del film, in un’alternanza di zoom e campi lunghi nella rumorosa metropoli, allo scopo di creare una perfetta corrispondenza visiva e sonora.

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Quello che funziona bene dell’ultima opera del regista Oren Moverman (The Messenger), presentata in anteprima europea all’edizione 2014 del Festival Internazionale del Film di Roma, è l’utile intento informativo e documentaristico alla base del progetto. Stessa cosa non si può dire invece del livello narrativo, poiché esaurito l’entusiasmo dello spettatore nel vedere un Richard Gere insolito, invecchiato e trasandato, Time Out of Mind procede faticosamente senza risvolto drammaturgico alcuno; una grave mancanza che ritroviamo nella scelta registica dichiaratamente intrapresa dalla produzione, quella cioè di non voler raccontare quasi nessun dettaglio della storia del protagonista. Chi era George Hammond prima di ridursi così, come ci viene presentato? Cosa gli è successo? Non ci è dato saperlo. Per noi rimane un senzatetto depresso e confuso, incapace di ritagliarsi il proprio posto nel mondo, non più di questo; un personaggio poco positivo, un perdente, dalla psicologia incompleta e non risolta. Privare volontariamente lo spettatore di molte informazioni, che a quanto pare trovavano invece ampio spazio nella sceneggiatura, non sembra aver aiutato il racconto, che solo nei dieci minuti finali, dopo tanto aspettare, subisce un primo sviluppo. Peccato che ciò avvenga poco prima che inizino i titoli di coda.

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L’empatia e la compassione sono gli ingredienti fondamentali del film, ma non possono bastare a reggere la durata di 117 minuti, per quando l’interpretazione di Gere, presente in ogni scena, sia apprezzabile. L’attore è riuscito a calzare pienamente la realtà di chi è “invisibile” in senso universale, al di là della questione minore di essere diventato un senzatetto. E’ certamente affascinante il buon proposito di mostrare il desiderio, proprio dell’essere umano, di volere appartenere a qualcosa, alla spasmodica ricerca di un punto di riferimento. Time Out of Mind parla di sentimenti, di come ci si sente quando si è fuori dal sistema, fuori dal tempo, incastrati dentro una bolla trasparente che fluttua nell’aria, nella speranzosa attesa che qualcuno se ne accorga.

Claudia Porrello

PRO CONTRO
  • L’intento documentaristico del progetto
  • La prova recitativa insolita di Richard Gere

 

  • Il passato del protagonista non viene per nulla tracciato nel racconto, una scelta che penalizza non di poco la riuscita complessiva del film

 

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Gli Invisibili, la recensione, 6.0 out of 10 based on 1 rating

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