RomaFF11: 7:19

Più vicino ai dettami del trap-movie che a quelli del cinema catastrofico, 7:19 racconta la lotta per la sopravvivenza di un gruppo di superstiti di un violento terremoto. Niente di nuovo, penserete voi. E invece una novità c’è, perché l’intero film ci mostra due persone impossibilitate a muoversi e la sfida lanciata allo spettatore è proprio quella di immedesimarsi in loro, senza la possibilità di avere mai uno sguardo esterno agli eventi.

Presentato nella selezione ufficiale dell’undicesima Festa del Cinema di Roma, 7:19 si ispira a un fatto realmente accaduto, il tremendo terremoto che rase al suolo Città del Messico nel 1985.

Una mattinata come tante in un edificio adibito ad uffici, ben presto sconvolta da un terremoto fortissimo che in pochi secondi fa crollare tutto sulle teste degli impiegati. L’intera vicenda è mostrata dal punto di vista di un gruppetto di superstiti intrappolati sotto le macerie, in particolare il Dottor Pellicer e il guardiano Martin. Oltre a loro si sentono voci di altre vittime, terrorizzate, ferite, uno di loro ha una radio e scopre l’ovvio: l’intera città è stata distrutta e i soccorsi sono al lavoro per salvare quante più vite possibile. L’attesa sarà snervante e ulteriori scosse non faranno altro che gettare nel terrore ancora di più i sopravvissuti al crollo.

 Il regista messicano Jorge Michel Grau, che abbiamo già avuto modo di conoscere e apprezzare per l’horror Somos lo que hay, si pone un obiettivo: far vivere allo spettatore la stessa esperienza raccontata sullo schermo e farlo appassionare a una vicenda incredibilmente statica e fortemente antispettacolare.

L’intento si può dire in buona parte riuscito perché la sensazione di impotenza e claustrofobia che 7:19 riesce a generare in chi guarda il film è esemplare e la mancanza di un punto di vista onnisciente o comunque esterno al crollo rende tutto il film incredibilmente partecipativo. Però se il film riesce a trasmettere con successo le sensazioni che si era prefissato, allo stesso tempo mostra un fiato più corto della sua durata. Il fatto che ci siano due persone sullo schermo e abbiano la possibilità di interagire verbalmente, fa si che l’enfasi sia tutta concentrata sullo scambio di battute senza che, in realtà, accada qualche cosa. La staticità dell’azione, quindi, a un certo punto debilita la narrazione e la mancanza di un climax lascia un po’ l’amaro in bocca.

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In più occasioni, 7:19 ricorda Buried – Sepolto dello spagnolo Rodrigo Cortés con la differenza che se Cortés abbracciava con più decisione la strada del cinema di genere mettendo il suo “sepolto vivo” alle prese con una moltitudine di difficoltà collaterali e un colpo di scena finale, Grau segue più il filone drammatico cercando di realizzare un film più realistico. La sua mano, comunque, è notevole, in grado di muovere la macchina da presa in spazi angusti e giocare con il buio e la luce, il vedo e non vedo in maniera lodevole.

Nel ruolo principale troviamo Demián Bichir, già battezzato da Quentin Tarantino e Robert Rodriguez per i quali ha lavorato, rispettivamente, in The Hateful Eight e Machete Kills.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Riesce a creare in maniera efficace una sensazione di impotenza e claustrofobia.
  • Regia notevole.
  • Alla lunga risulta ripetitivo e fin troppo statico.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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