SF8, distopie seriali sudcoreane al TSplusF20

SF8

La risposta asiatica a Black Mirror“.

Questa la formula più utilizzata per descrivere SF8, serie sudcoreana presentata in esclusiva al 20° Trieste Science + Fiction Festival. A una prima occhiata il parallelo appare giustificato: la puntate sono autoconclusive e di genere fantascientifico/distopico. Eppure, approfondendo questo confronto obbligato, scopriamo che SF8 offre qualcosa di molto diverso dalla serie britannica.

Potremmo affermare che SF8 sia più vicino al “secondo” Black Mirror, quello che abbandona l’angoscia senza scampo delle prime sette puntate per concedersi qualche spiraglio di speranza (perdendo qualcosa di importante nel processo, ma non è questo il luogo per discuterne). In SF8 le distopie non sono mai totalizzanti, anzi talvolta è difficile definirle tali. La tecnologia futura è il più delle volte solo il contesto di vicende il cui fulcro resta prettamente umano. Ciò è vero anche quando si parla di androidi, ma questa non è una sorpresa.

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Il ruolo strumentale dello spunto fantascientifico è evidente anche nel genere degli episodi: facendo la tara dell’elemento sci-fi, rimangono tre commedie romantiche, uno horror, un thriller psicologico e due buddy-movie. Il primo episodio, The Prayer (diretto da Min Kyudong, regista del bel Memento Mori) è forse il più difficile da incasellare, ma non si sottrae a quello che risulta essere il vero fil rouge della serie: un uso metaforico della tecnologia, che offre occasione di indagare l’animo umano da punti di vista inconsueti. Così The Prayer non è solo la storia di un’infermiera robotica che fa di testa sua, ma anche una riflessione non banale sull’eutanasia e sulla componente emotiva delle nostre decisioni etiche.

Dal punto di vista tecnico e registico SF8 è solida: non ci sono effetti speciali slogamandibola o scene che facciano gridare al miracolo, ma nessun episodio sfigura. La qualità media dell’industria cinematografica sudcoreana è oggigiorno un esempio per tutto il mondo.

Se al suo meglio SF8 è in grado di far riflettere, divertire e intenerire, non si può negare che talvolta manchi il bersaglio, per quanto non in maniera clamorosa. Un difetto ricorrente è quello che definiremmo “sindrome da corto”: quando un cortometraggio finisce per essere non una vicenda compiuta, ma l’antefatto di una narrazione più ampia che poi però non ha luogo. I titoli di coda ti prendono in contropiede e resti con la sensazione che il bello dovesse ancora venire. In questa ottica, il secondo episodio, Blink, sarebbe un perfetto pilot per un procedural investigativo, mentre Baby it’s Over Outside, il settimo episodio, è come un film deprivato del terzo atto.

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Un paio di episodi lasciano l’amaro retrogusto delle occasioni sprecate. In particolare, Love Virtually, il numero sei, parte come una frizzantissima rom-com: dialoghi spumeggianti, inattesi ribaltamenti e un uso degli elementi sci-fi creativo e divertente. Purtroppo, però, nella seconda parte si perde in un gioco di specchi melenso e fine a se stesso. Anche l’ultimo episodio, Empty Body, seppure in maniera minore, lascia una sensazione simile. La riflessione che propone è complessa e approfondita, tocca temi quali l’identità, il rapporto madre-figlio, l’accettazione; purtroppo il ritmo esageratamente lento dilata i tempi e diluisce la vicenda. All’opposto degli episodi due e sette, Empty Body ha l’aria di essere la puntata finale di una serie. Viene da chiedersi quale sia la ragione per cui ben tre episodi su otto sembrino abbisognare di maggiore sviluppo. Black Mirror, per proseguire il parallelo, non aveva questo problema. Che la risposta sia nel tono generalmente meno tragico degli episodi? Come a dire che forse, specie in tempi come questi, la speranza necessiti di una gestazione più lunga per essere credibile?

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In definitiva SF8 è una serie gradevole, intima, non imprescindibile per la fantascienza, che dà il suo meglio con l’introspezione e il romanticismo.

Alessio Arbustini

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