Synecdoche, New York, la recensione

Sineddoche. La parte per il tutto. Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro, che ha con il primo una relazione di vicinanza. Termine che suona stranamente simile a Schenectady, cittadina nello stato di New York in cui il regista teatrale Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman) vive con la moglie Adele (Catherine Keener) e la loquace figlioletta Olive.
Caden ha messo in scena con successo un allestimento, interpretato da attori giovani, di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Improvvisamente, sembra che tutti i temi del dramma – ambizioni fallite, difficili rapporti familiari – si riversino tragicamente nella sua quotidianità. La moglie, che non lo ama più, si trasferisce con la figlia a Berlino; la sua mente è vittima di strane psicosi e il suo corpo di pustole o altre inspiegabili malattie. Caden finisce per confondere realtà e fantasie oniriche, deludendo chiunque provi ad avvicinarsi a lui per dargli amore e calore umano. Troverà unico sfogo in un monumentale, ambizioso progetto: userà i fondi ottenuti grazie a un prestigioso premio artistico per costruire un enorme teatro di posa a New York e allestire la propria vita, vissuta da se stesso e dalle comparse che lo circondano. Questo significa che ci saranno attori ad interpretare lui, le sue donne, la sua famiglia, innescando un circolo vizioso in cui verità e rappresentazione si fondono indissolubilmente, dando vita a una metafisica allegoria di morte.

Caden (Philip Seymour Hoffman) e Hazel (Samantha Morton) lavorano alla piéce con gli attori che li interpretano (rispettivamente, Tom Noonan e Emily Watson).

Caden (Philip Seymour Hoffman) e Hazel (Samantha Morton) lavorano alla piéce con gli attori che li interpretano (rispettivamente, Tom Noonan e Emily Watson).

L’opera prima del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman, autore di script memorabili quali Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello, è un intricato calderone di suggestioni, traboccante di spunti complessi, colte citazioni e collegamenti interdisciplinari. L’articolata trama che il regista tesse comincia sin dal gioco linguistico del titolo e si dipana in un surreale ma efficace ricamo il cui fine ultimo e imprescindibile è la morte, controversa pulsione e assoluta certezza. Kaufman si dimostra un sornione stratega e un abile architetto nel costruire un impianto narrativo e concettuale incredibilmente denso e ancorato a una sceneggiatura ardita, nella quale ogni elemento, seppur nella generale confusione, trova la propria ragion d’essere in un sistema di sovrapposizioni e incastri. La condizione di Caden, afflitto da un perenne malessere esistenziale e continuamente in fuga da se stesso, sortisce un effetto ancor più intenso e vivido se contestualizzata con la tragica vicenda umana di Philip Seymour Hoffman, scomparso prematuramente lo scorso inverno.

Questo, tuttavia, ha poco a che fare con la poetica elaborata da Kaufman, che scrive e dirige il film nel 2008 e mira piuttosto a una summa del concetto universale di vita, con i suoi desideri, i suoi limiti, le crisi… Il suo assurdo vortice di chimere risucchiate nel fiume di un tempo che scorre troppo velocemente.
A un impianto teorico metafilmico, metateatrale, cripticamente simbolista, corrispondono una serie di trovate originali, quali l’idea di colmare il vuoto nel cuore di un padre con le pagine di un diario rosa, che progressivamente si riempiono di parole vuote e risposte che non vorremmo ascoltare.
O, ancora, il trasferimento di Hazel (Samantha Morton) in una casa che va letteralmente a fuoco, nonostante ella abbia il terrore di morire in un incendio. L’assidua presenza di situazioni ai limiti dell’assurdo e personaggi dalla natura ambigua e sfuggente, comporta la necessità di una seconda visione della pellicola, per tentare di coglierne appieno ogni nascosta sfumatura.

Caden e Hazel nella casa di quest'ultima, lentamente consumata dalle fiamme.

Caden e Hazel nella casa di quest’ultima, lentamente consumata dalle fiamme.

Un susseguirsi, dunque, di metafore, tracce e riflessioni venate di ineluttabile malinconia. A questo, si aggiungano alter ego che si improvvisano grilli parlanti, misteriose cameriere e lascive psicologhe. Tuttavia, alla lunga, questo enigmatico e articolato flusso di coscienza di un artista disperato rischia di disorientare il pubblico, che potrebbe facilmente perdere il filo della vicenda e non raccapezzarsi più rispetto a quanto sta osservando. Nonostante la magistrale interpretazione di Hoffman, l’attenzione dello spettatore è destinata a calare inevitabilmente nella seconda parte del film, dove il surrealismo e ha la meglio, e che sembra trascinarsi per un tempo interminabile. A proposito di interpretazioni, nel cast, si distinguono anche Michelle Williams, Tom Noonan, Emily Watson e il premio Oscar Dianne Wiest.

Synecdoche, New York, storia di deliri, di sogni e di ricerca, debutta nei cinema italiani il 19 giugno, distribuita da BIM Distribuzione.

Chiara Carnà

PRO CONTRO
  • L’occasione di rivedere il compianto Philip Seymour Hoffman sul grande schermo.
  • La grande abilità di Kaufman nell’ordire trame surreali ma dense di significato.
  • Sceneggiatura originale ricca di spunti inediti e interessanti.
  • Il gioco intellettuale rischia, alla lunga, di stancare e lasciar posto alla noia.
  • Seconda parte del film dominata da un ritmo lento e inesorabile.
  • Le sovrapposizioni di personaggi e il sovraccarico di suggestioni potrebbe disorientare lo spettatore.
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