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Benvenuti a Marwen, la recensione
Se guardiamo alla carriera di Robert Zemeckis nel post 2000, notiamo un ardimento nella sperimentazione narrativa e tecnica che parlano chiaro sul suo ruolo all’interno del panorama cinematografico mondiale. Concettualmente vicino a Spielberg, di cui è stato ed è un fidato collega/collaboratore, Zemeckis ama le sfide, si mette continuamente alla prova nella sperimentazione di linguaggi, sempre aperto ad applicare alle storie che decide di raccontare le strade a cui la tecnologia ci apre. Perfino in film sulla carta insospettabili come Allied – Un’ombra nascosta, la tecnologia ha un ruolo decisivo che segue il percorso del perfezionamento e sostituzione dell’attore in carne ed ossa con un avatar fatto di 0 e 1, come già sperimentato nella trilogia in mo-cap (Polar Express, La leggenda di Beowulf, A Christmas Carol). Con Benvenuti a Marwen, il suo nuovo lungometraggio, Zemeckis prosegue proprio in questa personale direzione, continuando a riflettere sulle possibilità della tecnologia in campo di performance attoriale, dando vita a quello che fino a qualche tempo fa era peculiarità della sola fantasia.