La ragazza d’autunno, la recensione

Un intenso primo piano iniziale incornicia lo sguardo vitreo di una radiosa e altissima figura femminile (il titolo originale “dylda” significa infatti “spilungona”). Lo sfondo è quello di una lavanderia a cui lavorano sole donne. Qualcuno cerca di richiamare l’attenzione di Iya – questo il nome della nostra protagonista –, ma senza successo: la giovane è come imprigionata nella propria immobilità. Poi la sua espressione muta e Iya finalmente torna alla realtà.

Questa è la prima sequenza de La ragazza d’autunno (Beanpole – Dylda), l’opera seconda di Kantemir Balagov, il talentuoso ventottenne che si era fatto notare già con il suo primo lungometraggio Tesnota (Closeness). Un film che per certi versi può ricordare il lavoro di un altro astro nascente del panorama europeo, Tramonto di Laszlo Nemes: due film in cui lo sguardo femminile regna sovrano e diventa l’emblema di un silenzio oppressivo (nel caso de La ragazza d’autunno la verità emotiva viene data per proibita e perfino bruscamente messa a tacere); i contorni sono meno definiti e non vengono perse di vista le figure principali, ma in entrambi i casi siamo testimoni di uno sfondo storico che determina importanti ripercussioni psicologiche sulla figura umana in esame. Con la sola differenza che in La ragazza d’autunno in linguaggio è più ricco e articolato: la continuità è qui più che altro un’impressione scaturita dal modo in cui il regista decide di inquadrare i personaggi, ma gli stacchi ci sono e non tutto il film è imperniato sulla figura di Iya, il cui ruolo resta comunque centrale, come viene più volte ribadito.

Beanpole

L’azione ha luogo nell’anno 1945. In una Leningrado devastata dalla Seconda Guerra Mondiale, seguiamo Iya e Masha, due giovani donne che cercano faticosamente di risorgere dalle rovine.

Attraverso il loro girovagare, esploriamo così una Russia ferita dall’assedio, sia fisicamente che moralmente.

Un po’ come avveniva in Roma di Alfonso Cuarón, il regista esamina un periodo storico da un duplice punto di vista femminile, legando le sue protagoniste in un insolito rapporto di solidarietà.

Pur non mostrando un solo combattimento, La ragazza d’autunno è un racconto forte e scioccante sul conflitto bellico, filtrato attraverso un’ottica femminile. L’idea che le donne siano estranee alla guerra viene quindi definitivamente superata e chiunque sullo schermo ne riporta sulla propria pelle le conseguenze. La stessa apertura di cui si parlava prima allude ad uno stress post-traumatico che sembra caratterizzare le due protagoniste, in particolar modo Iya. Clamorosamente l’alta statura di quest’ultima, che domina fisicamente l’intero quadro filmico, si rivela in qualche modo indice della propria impotenza, della propria vulnerabilità. Il suo sguardo dall’alto non la rende certo meno vittima.

Beanpole

Il film è fatto di pochi e insignificanti eventi e dialoghi perlopiù irrilevanti, ad eccezione di quelli in cui Masha rivela le proprie aspirazioni future. Tuttavia, assistiamo ad un percorso movimentato che porta Iya e Masha ad entrare in contatto con il proprio io, soprattutto per quanto riguarda la seconda, mentre la prima prende infine coscienza della propria apatia. Due volti e due modi diversi di reagire alla sciagura, dunque.

Man mano che la narrazione avanza, il legame tra l’introversa Iya e la sognatrice Masha si fa sempre più stretto e le due vengono praticamente isolate dalle comparse sullo sfondo arrivando perfino a dividersi lo schermo. I rispettivi limiti vengono annullati dalla relazione con l’altra e ciascuna trova conforto dall’amarezza e dalla delusione nella propria vicina emotiva.

Quello che in La ragazza d’autunno acquista un forte peso è però l’immagine, che in più punti è simile ad un dipinto e tocca vette altissime. I movimenti di macchina inscenano quasi una narrazione danzante, che culmina nella bellissima sequenza della pirouette di Masha.

Beanpole

Non c’è dubbio che Balagov vanti un registro molto solido, ma il lavoro che mette a punto, per quanto visivamente seducente, risulta nel complesso esageratamente artificioso. Un effetto che contrasta fortemente con la maestria fluida che sembra caratterizzare il giovane autore russo. Allo spettatore viene semplicemente chiesto di lasciarsi guidare attraverso un tunnel filmico, dove aleggia un’aria minacciosa, senza mai veramente soffermarsi su qualcosa. L’obiettivo fissato dal regista è tutto sommato centrato: al termine della visione, si ha effettivamente l’impressione di aver vissuto insieme a Iya e Masha. Tuttavia, l’esperienza delle due protagoniste non produce alcun cambiamento effettivo. Semplicemente non viene persa la speranza.

Inoltre va detto che l’insistenza monotematica risulta qui ridondante, imprigionata com’è nelle altissime ambizioni di regia. In confronto al precedente Tesnota, il secondo lungometraggio di Balagov pare più un passo indietro.

I pregi del film sono però sicuramente molti e innegabili e riescono a portare l’opera sotto i giusti riflettori: dalla scelta come candidato per la Russia ai prossimi Oscar 2020, al premio Un certain regard per la regia a Cannes fino al più recente riconoscimento per le due interpreti al 37° Torino Film Festival.

Claudio Rugiero

PRO CONTRO
  • Dylda è un film ricco di sguardo, non proprio innovativo, ma ammaliante e ricco di artifici, che mostrano sicuramente una rara perizia registica.
  • Due interpreti toccanti, una delle quali interpreti (Viktoria Myroshnichenko, ovvero Iya) vanta perfino la stessa eleganza di una giovanissima Tilda Swinton.
  • Le emozioni del film sono affidate unicamente alle due attrici: la sceneggiatura non le aiuta e la regia le delinea come figure più che come personaggi.
  • Nessun evento pare particolarmente rilevante: come sopra accennato, narrativamente Dylda è costruito come Tramonto di Nemes, ma in quest’ultimo la staticità conosceva brusche interruzioni d’azione che rendevano il tutto più interessante.
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