TFF37. Synonymes

Esplosivo e grottesco, Synonymes si presenta da subito come un oggetto misterioso e non semplice da definire. Caratterizzato da un’incredibile capacità di cogliere l’attualità attraverso uno sguardo nuovo e originale, il film dell’israeliano Nadav Lapid (autore di The Kindergarten Teacher, da cui è stato poi tratto Lontano da qui di Sara Colangelo e con Maggie Gyllenhaal) sembra dialogare direttamente con i più recenti successi del cinema europeo. Così, dopo i denti finti di Winfried/Peter Simonischek in Vi presento Toni Erdmann e l’animalesca performance art di Oleg/Terry Notary in The Square, ecco il cappotto ocra di Yoav (Tom Mercier), un giovane ex militare israeliano fuggito in Francia. Proprio quest’ultimo indumento diventa metonimia del suo radicale percorso identitario, che nello specifico consiste nel rifiuto delle proprie (odiate) origini, viste soltanto come un soffocante impedimento. Il suo corpo, snello e atletico da spingerlo a cercare lavoro come modello, sembra essere a suo agio soltanto in quel capo che in realtà non gli appartiene, mentre sulla pelle apporta tutte le immaginabili migliorie (dal congelamento al constante allenamento).

D’ora in poi sarò francese”, dice il protagonista.

La privazione dell’identità risulta evidente fin dalla prima scena del film, in cui vediamo Yoav camminare scalzo e nudo in un appartamento vuoto a Parigi. È qui che lo trovano Émile e Caroline, una giovane coppia borghese – intellettuali, bohémien e senza pregiudizi – che accoglie immediatamente il misterioso intruso nella propria vita. È soprattutto Émile, scrittore annoiato che si intuisce essere figlio di un ricco industriale, ad interessarsi a Yoav: gli fornisce i propri vestiti, incluso l’inseparabile cappotto di cui sopra, si assicura che non giri senza soldi e lo invita a raccontare la sua storia. Un contatto umano circostanziale e non del tutto gratuito: in Yoav Émile vede subito una fonte di ispirazione per la propria produzione letteraria e una via di fuga dalle sue monotone giornate parigine.

Incalzato dalla curiosità dell’amico francese, Yoav rivela quindi di essere in Francia per fuggire dal natio Israele, da lui definito “malvagio, osceno, ignorante, orrendo, vile, sordido, abominevole, fetido, ripugnante, detestabile, stupido e abbruttito”. L’auspicato cambio di identità di Yoav si traduce infatti in un’immersione profonda nella lingua francese, esplorata in tutti i suoi accenti e in tutte le sue particolarità grammaticali. Così, ogni volta che impara una parola nuova, ne cerca i sinonimi sul suo inseparabile dizionario tascabile e li ripete a mente (e non solo) fino a scolpirli nella propria memoria. A farne le spese è ovviamente la lingua d’origine, l’ebraico, rifiutata perfino nel mantenimento dei legami affettivi. Anzi, anche questi ultimi vengono negati. È così che Yoav inizia a fare tabula rasa di tutto ciò che lo identifica come giovane israeliano. Per il nostro eroe, inizia tutta una serie di avventure, sparse in una narrazione quasi episodica, che metteranno in pericolo il suo stravagante percorso di integrazione.

L’amore per la patria non è più dato per scontato e lo sradicamento viene qui visto come desiderio disperato e non più come evento traumatico. I sentimenti che agitano Yoav sembrano però tanto veri quanto contraddittori. Le ragioni delle sue azioni invece non importano e rimangono il più delle volte ignote. Synonymes non indaga, semplicemente mostra. Il corpo del suo protagonista diventa quindi la tela su cui viene sprigionata tutta la creatività del regista (e a tal proposito c’è perfino una scena nel film in cui questo risulta particolarmente evidente).

Ciò che colpisce in Synonymes è che la vicenda di Yoav diventa per Lapid un pretesto per affrontare determinati argomenti (molti dei quali di matrice politica) solitamente considerati tabù: si può dire male di Israele, si può scherzare su un latente ma ancora vigente sentimento antisemita e si possono ostentare i cliché che il popolo francese nutre verso la minoranza ebraica. Anzi, nel caso di Yoav, si diventa perfino parte di questa ostilità, di questa ordinaria freddezza (rappresentata soprattutto dalla figura dell’introversa e diffidente Caroline). Perché lui non è più israeliano, è francese. Questa operazione di sradicamento estremo sembra investire lo stesso registro filmico impiegato da Lapid, che eredita molto dello spirito della Nouvelle Vague: dall’animo trasgressivo all’insistenza monotematica e all’attenzione riservata alla condizione umana.

Da nativo di Tel Aviv trasferitosi a Parigi, Nadav Lapid si identifica perfettamente nel suo protagonista e racconta in chiave tragicomica una generazione astiosa verso le proprie origini e ansiosa di (non) definirsi.

Sebbene il film si avvalga di un attore protagonista che è una vera e propria rivelazione, è soprattutto l’enfasi narrativa con cui il regista affronta la sua opera a dare a Synonymes quel qualcosa di provocatorio e rivoluzionario che alleggerisce il senso di spaesamento che si avverte per tutto il film.

Sospeso tra il cinismo disincantato e il sempre imminente senso dell’assurdo, Lapid finisce per spingere lo spettatore a giustificare le imprevedibili follie di Yoav e ad essere parte integrante del suo percorso di (s)formazione. Tutto viene deriso o minimizzato, perfino l’identità ebraica o il ménage à trois, che in questo caso è consapevole quanto in The Dreamers, ma per nulla romantico e vissuto con facile distacco, come a voler rimarcare la non-appartenenza all’interno delle relazioni umane.

Sotto a questo crescendo di situazioni tragicomiche, Lapid installa però un serbatoio tematico che tiene lo spettatore col fiato sospeso spingendolo a riflettere praticamente in ogni scena a cui assiste. Tutto quello che accade in Synonymes provoca un effetto scioccante, la cui incisività supera quella dei summenzionati Vi presento Toni Erdmann e The Square e si protrae anche oltre l’esperienza in sala. Perché Yoav siamo un po’ tutti noi. Ancora più di Joker!

Claudio Rugiero

PRO CONTRO
  • Synonymes si avvale innanzitutto di una scrittura incredibile e sorprendente, fortemente sperimentale nella costruzione narrativa, che ci regala i migliori dialoghi visti in un film in tutto il 2019.
  • Il regista porta avanti un discorso nello stesso tempo atemporale e capace di cogliere l’attualità attraverso un linguaggio privo di fronzoli ma ricco di eccessi.
  • Un attore protagonista talentuoso e perfettamente a suo agio in un ruolo così disorganico. Sul suo volto si dipingono in maniera credibile tutte le emozioni confuse e contraddittorie di Yoav.
  • Forse l’unico contro è proprio l’unicità del film: mancando un vero e proprio termine di paragone, risulta un oggetto assai difficile da identificare.
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