TFF38. The Oak Room, la recensione

Peter Genoway, sceneggiatore esordiente del thriller “da camera” The Oak Room, deve amare molto il cinema di Quentin Tarantino, in particolare la scrittura e i personaggi del celebre autore di Pulp Fiction, perché il suo primo lungometraggio da sceneggiatore somiglia senz’altro a Le iene e The Hateful Eight, ma soprattutto suona come una dilatazione di quel frangente di Desperado in cui Tarantino era impegnato nel ruolo di attore e il compagno Rodriguez dirigeva e scriveva imitando alla perfezione lo stile dell’amico impegnato davanti la mdp.

Il bancone di un bar, un ospite invadente pronto a raccontare una storia, un bartender riluttante ad ascoltare e una storia che, a poco a poco, prende vita, ed è ambientata in un altro bar e ha per protagonisti uno straniero e un barista, fino all’epilogo pulp che funge da collante al “hic et nunc” del racconto. Insomma, questa è la sintesi di quei magnifici 10 minuti di Desperado ed è anche la sinossi dei 90 minuti di The Oak Room.

The Oak Room

Però non sempre quello che funziona bene in poco tempo può avere la stessa efficacia stirando all’estremo le tempistiche del racconto e così The Oak Room, pur partendo da ottime premesse, si sgonfia a mano a mano che i minuti procedono e il giocattolo si rompe in un mare di chiacchiere che non hanno affatto quell’acume intrattenente a cui si ispirano.

Presentato in anteprima italiana nella sezione Le stanze di Rol del 38° Torino Film Festival, The Oak Room è la quarta opera da regista di Cody Calahan, specializzato in body-horror (suoi gli altalenanti Antisocial, Antisocial 2 e Let Her Out) che qui lascia da parte le truculenze a lui care (anche se una scena con al centro una sega e un cadavere suggerisce sana macelleria) per portare avanti un discorso che teorizza la stratificazione del racconto orale. Il film è costruito come una matrioska narrativa e ogni racconto contiene dentro di se un altro racconto fino a creare una trama che si sviluppa su più livelli.

The Oak Room

Nella teoria, The Oak Room ha una costruzione originale e molto interessante ma nella pratica ci si rende presto conto che questo gioco è per lo più gratuito e che la storia, in realtà, si sviluppa su soli due piani narrativi lasciando tutto il resto come inutili parentesi che servono solo a contorcere inutilmente la linearità del racconto. Un racconto che, poi, è molto semplice e si traduce in un dramma da camera in cui quello che conta non è tanto la fluviale parola quanto il rapporto pregresso tra le persone. Infatti l’avventore Steve, che ha il volto di RJ Mitte di Breaking Bad, e il barista Paul (Peter Outerbridge) si conoscono bene e hanno un conto in sospeso che ha a che fare con un padre defunto e un’eredità da riscattare. In fin dei conti, la cosa più interessante è proprio il confronto tra i due, i rancori e la rivalità, mentre il gioco al rilancio della storia che è nella storia che è nella storia mostra presto il fianco anche a causa di colpi di scena prevedibilissimi e dettagli troppo poco credibili negli strati interni della narrazione.

The Oak Room

The Oak Room è un’opera derivativa che vorrebbe apparire originale e nonostante si faccia seguire con interesse non sorprende mai e quella chiusura “sul più bello” lascia anche un po’ di amaro in bocca.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Sa intrattenere con soli dialoghi.
  • I due attori protagonisti sono bravi.
  • Il gioco dei diversi piani narrativi che si incastrano mostra prestissimo la sua macchinosità.
  • È tutto fin troppo prevedibile.
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