The Fabelmans, la recensione del film di Steven Spielberg

76 anni appena compiuti, 54 dei quali già spesi nel mondo del cinema. Quattro Oscar portati a casa, due proprio per la regia, nonché il record di film con maggiore incasso della Storia. Parliamo di Steven Spielberg, signori, che spesso e volentieri è sinonimo di Cinema, quello con “C” maiuscola. Una personalità del mondo del cinema così forte, autorevole e amata da aver toccato più generi della settima arte, spesso in maniera indelebile, e che sta dedicando le sue opere più recenti a un’analisi auto-biografica molto particolare. Se lo scorso anno, infatti, Spielberg ha diretto West Side Story (primo musical della sua carriera) dedicandolo a suo padre e dichiarando, in più di un’intervista, che la versione di Robert Wise era uno dei film preferiti di sua madre, quest’anno con The Fabelmans compie il passo successivo e racconta la sua infanzia, soffermandosi in modo particolare sul turbolento rapporto tra i suoi genitori.

Siamo negli anni ’50 e il piccolo Sam Fabelmans sprofonda timoroso nella poltrona del cinema. È la prima volta per lui e sul grande schermo scorrono le immagini de Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. Inizialmente Sam è spaventato, non si sente pronto a lasciarsi trasportare da quelle immagini in movimento che appaiono quasi come una magia, ma a mano a mano che il film procede gli si apre un mondo, quel mondo che lo affascina a tal punto da decidere che fare film sarebbe stato il suo mestiere!

Ricevere in regalo dai suoi genitori una videocamera amatoriale sarà il primo passo che lo porterà a realizzare, con il passare degli anni, piccoli film con i suoi amici e compagni di scuola. Nel frattempo, suo padre Burt è costretto a trasferire tutta la famiglia a Los Angeles per andare in contro a un’importante opportunità di lavoro, un cambiamento tanto drastico quando deflagrante per il suo rapporto con la moglie Mitzi che ha dovuto sacrificare la sua passione per il pianoforte per occuparsi della famiglia e ora deve abbandonare anche la sua vita a Phoenix e importanti affetti per assecondare il marito che, palesemente, non ama più… o forse non ha mai amato.

The Fabelmans ha un inizio folgorante: lo sguardo di un bambino che si sta avvicinando per la prima volta a quella che sarà la passione della sua vita. E lo sguardo diventa il leitmotiv del film, che sia filtrato dalla macchina da presa del giovane Sam/Steven o dalla sua retina da spettatore, uno sguardo rivelatore su più livelli, tanto immaginifico quanto reale, testimone dei più importanti eventi della vita del protagonista. È proprio attraverso un suo filmato che Sam scopre, durante un campeggio con la famiglia, l’inadeguatezza di sua madre alla situazione che sta vivendo, a quel mondo famigliare che le sta stretto e che le ricorda in ogni momento la rinuncia ai sogni d’artista, gli stessi sogni che Sam ora sta inseguendo.

C’è una particolare connessione tra il giovane protagonista e la genitrice, una schizofrenica dualità che fatica a tenere insieme lo spirito dell’arte e la pragmaticità della vita: in Mitzi Fabelmans il primo sembra predominare facendo a pugni con la seconda; in Sam Fabelmans il primo e la seconda sembrano aver trovato una più pacifica convivenza.

Dicevamo che l’inizio di The Fabelmans è folgorante, cattura immediatamente e la prima mezz’ora è un esempio di grande Cinema, come Spielberg ci ha spesso dimostrato. Nella sua parte centrale, però, il film trova un adagiamento che lo standardizza a molto cinema da comedy/drama famigliare che negli anni abbiamo visto e rivisto, al cinema e in tv. Diciamo che al di là dell’interesse che un cinefilo può avere per la vita vera (ma romanzata) di un Maestro del Cinema, The Fabelmans ci racconta comunque una vicenda come tante, se vogliamo perfino stereotipata nel descrivere momenti di felicità e amarezza famigliare con personaggi (Burt e Mitzi Fabelmans) abbastanza canonici nelle loro umanissime idiosincrasie.

È come se, a un certo punto, lo sguardo dello Spielberg bambino abbia repentinamente lasciato il posto a quello dello Spielberg narratore per grandi masse; così anche le storie che vedono protagonista Sam a scuola destinato a scontrarsi con i bulli e affrontare impacciato la prima vera cotta adolescenziale sembrano reminescenze di un racconto idealizzato che può facilmente compiacere ogni pubblico. E qui troviamo, paradossalmente, l’abilità di Steven Spielberg (e del suo sceneggiatore Tony Kushner) come narratore, ovvero “sacrificare” il personale per spingere un’esperienza collettiva, adatta a ogni suo singolo spettatore.

E così, se è impossibile non rimanere affascinati dal suo incipit, The Fabelmans pian piano cade nel già visto, favorendo situazioni e personaggi così universali da risultare perfino banali.

Ma attenzione! Con un colpo da maestro che solo un Maestro può portare a segno, The Fabelmans ha uno dei finali più belli che si siano visti al cinema negli ultimi anni. E qui Spielberg torna a parlare di se in maniera personale, con quello sguardo del bambino che per la prima volta assisteva al “prodigio” ma con la consapevolezza di chi quel prodigio l’ha fatto proprio. E il racconto termina con quello che altrove sarebbe potuto essere l’inizio, quando Sam lascia il posto a Steven.

Non ci troviamo dinnanzi al più grande film di Steven Spielberg, come si è strombazzato da qualche parte, non ci siamo neanche vicini ai capolavori che hanno scandito almeno un trentennio del suo cinema, questo è poco ma sicuro. The Fabelmans, comunque, è l’ennesimo ottimo lavoro di un regista che sa come parlare al suo pubblico, divertirlo e commuoverlo, appassionarlo e farlo partecipare con estrema umanità, come forse nessun altro ci riesce.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • L’inizio cattura, ma la fine ti lascia andare a casa con uno ricordo magnifico.
  • La grande abilità con cui riesce a trasformare una storia estremamente personale in una storia universale.
  • Personaggi ed eventi sono così vicini all’esperienza di chiunque da compromettere in parte il sapore dell’autobiografia con un effetto di già visto che stride con gli intenti dichiarati dell’operazione.
  • Michelle Williams, costantemente in overacting. Arriverete alla fine del film che la odierete.
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