The Grand Budapest Hotel, la recensione

Il buon vecchio Wes è finalmente tornato sui nostri schermi con l’attesissimo The Grand Budapest Hotel, ricompensando la pazienza dei suoi numerosissimi estimatori italiani. La fortunata pellicola, prima di approdare nella Penisola, ha infatti viaggiato per tutta l’Europa (e non solo, riscuotendo critiche per lo più positive e portando a casa soddisfazioni di un certo livello, quali il Gran Premio della Giuria alla 64° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Dopo visione del lungometraggio, non è affatto difficile comprendere la ragione di tanto entusiasmo. Wes Anderson, regista di gioielli quali I Tenenbaum e Moonrise Kingdom, cultore del dettaglio e artista dell’atmosfera, colpisce ancora una volta il bersaglio, portando sul grande schermo una vicenda squisitamente confezionata, dal sapore vintage e dal retrogusto noir, nella quale lo spettatore viene introdotto a poco a poco, con la meticolosa cautela dell’esploratore e l’eccitante curiosità del lettore, attraverso uno sfizioso gioco di scatole cinesi.
Dai giorni nostri, in cui una fanciulla, nel cimitero dell’immaginario stato mitteleuropeo di Zubrowka, rende omaggio al defunto autore del romanzo The Grand Budapest Hotel, facciamo un passo indietro, ai momenti di febbrile attività dello scrittore (Tom Wilkinson); ma non è tutto! Un altro flashback ci catapulta nel 1968, quando il giovane autore (Jude Law) incontrò, proprio nel famigerato edificio, l’anziano Zero Moustafa (F. Murray Abraham) e ne ascoltò la storia. Infine, eccoci nel 1932, periodo d’oro per lo sfarzoso hotel e per il raffinato concierge Gustave H (Ralph Fiennes), distinto e carismatico professionista con un debole per benestanti signore sole e attempate. La sua cliente più affezionata è la decrepita ma appassionata Madame D. (Tilda Swinton) che, dopo una partenza improvvisa, muore in circostanze misteriose. Gustave, in compagnia del suo giovane pupillo Zero (Tony Revolori), si reca prontamente nella lussuosa dimora della donna per reclamare la propria parte di eredità: un dipinto di inestimabile valore. Questo, prevedibilmente, provoca aspre e imprevedibili reazioni nei parenti e servitori della defunta, a cominciare dal losco Dmitri (Adrien Brody) e allo spietato Jopling (Willem Dafoe), pronti a tutto pur di appropriarsi del patrimonio e mettere a tacere per sempre una scomoda verità…

Gustave (Ralph Fiennes) s'intrattiene affabilmente con le facoltose ospiti dell'hotel

Gustave (Ralph Fiennes) s’intrattiene affabilmente con le facoltose ospiti dell’hotel

Il miglior pregio della regia e dell’estro creativo di Wes Anderson risiede certamente nell’indiscussa capacità di riproporre sistematicamente i punti fermi della propria poetica visiva e drammatica (il ricorso a una sintassi filmica codificata, la scelta di location mozzafiato, la presenza di personaggi stravaganti e via di seguito) ma, contemporaneamente, riuscire a essere immancabilmente imprevedibile e mai uguale a se stesso. In particolare, The Grand Budapest Hotel regala l’opportunità di scoprire il Wes che non ti aspetteresti. Forse meno incline a indugiare sulla piacevolezza visiva e scenografica, in favore di un maggior impatto e ritmo narrativo… che si concede persino qualche sporadica ma incisiva incursione nello splatter!
Ogni elemento trova perfettamente la propria ragion d’essere in questo variopinto e ricercato puzzle di spericolate avventure, umorismo brillante, interpreti impeccabili.
Attingendo nostalgicamente all’universo cinematografico straordinariamente evocativo di cineasti del calibro di Ernst Lubitsch o Erich von Stroheim, Anderson rielabora col proprio personalissimo tocco indimenticabili suggestioni e dona loro nuova vita, contaminandole con materiale originale e intrattenimento di qualità.

Che dire, infine, dell’eterogenea e variegata sfilata di personaggi, frutto di un lavoro di scrittura estrosamente certosino? Volti prevalentemente arcinoti, molti dei quali compaiono in scena per appena una manciata di minuti, ma senza mai risultare anonimi o dimenticabili. A spiccare su tutti, è un Ralph Fiennes in stato di grazia: il suo Gustave H è un uomo straordinariamente complesso, dotato di infinite e impenetrabili sfaccettature ed esilaranti contraddizioni. Ottima prova anche per il giovane Tony Revolori, che regge dignitosamente il suo primo ruolo importante e si dimostra una valida spalla per il monumentale Premio Oscar. Graziosa e adorabile la star in ascesa Saoirse Ronan, nei panni della fragile ma decisa Agatha, astuta fornaia e anima gemella di Zero. Ma, come si accennava, neanche le più o meno fugaci apparizioni di Edward Norton, Jeff Goldblum, Bill Murray, Bob Balaban e un tatuassimo Harvey Keitel (negli inediti panni di uno scaltro galeotto) son destinate a passare inosservate.

Zero (Tony Revolori), in grave pericolo, e il suo grande amore Agatha (Saoirse Ronan) s'incontrano di nascosto.

Zero (Tony Revolori), in grave pericolo, e il suo grande amore Agatha (Saoirse Ronan) s’incontrano di nascosto.

The Grand Budapest Hotel è un mordace e folgorante tuffo nel passato; un gustoso sogno a occhi aperti dal quale ci si risveglia con un pizzico di dispiacere e anche una discreta dose di appagamento per gli occhi e per il cuore. Questa gustosa ed esplosiva miscela di folle azione, dialoghi brillanti e accattivante tensione, destinata a convincere tanto gli affezionati che i neofiti delle trovate Andersoniane, è distribuito nei nostri cinema dalla 20th Century Fox a partire dal 10 aprile.

Chiara Carnà

PRO CONTRO
  • Wes Anderson colpisce nel segno riuscendo a reinventarsi senza paura di osare.
  • Una vicenda avvincente che, seppur ‘datata’, è raccontata con brio, originalità e dinamismo narrativo.
  • Un cast stellare e in forma smagliante.
  • Ottimo lavoro di scrittura e sull’impianto visivo.
  • Finisce troppo presto.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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The Grand Budapest Hotel, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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