The Orphanage, la recensione

Laura ha acquistato l’orfanotrofio in cui è cresciuta da bambina e ora, insieme a suo marito Carlos e al figlio adottivo Simon, ha intenzione di trasformare l’edifico in una casa-famiglia dove accudire bambini disabili. Il giorno dell’inaugurazione, il piccolo Simon, dopo un litigio con la madre, scompare senza lasciare traccia. Da quel momento la vita di Laura e Carlos ha una brusca caduta, i loro sogni sono infranti e, per di più, la donna percepisce delle strane presenze dentro casa, forse le stesse di cui parlava anche Simon senza essere creduto dai genitori. Passati nove mesi dalla scomparsa del bambino, i due genitori non hanno ancora smesso di cercarlo e come ultimo tentativo si rivolgono a un team di parapsicologi per far loro analizzare l’abitazione, convinti che le presenze che probabilmente vi abitano possano sapere dove è finito il bambino.

In uno dei suoi primi film, La spina del diavolo, il regista Guillermo Del Toro provava a riflettere sulla stessa natura del “fantasma”, definito nel film come un “evento terribile condannato a ripetersi all’infinito”. L’esordiente Juan Antonio Bayona sicuramente ha imparato qualcosa dal suo mentore Del Toro, che qui figura come produttore, ma non sembra essere del tutto d’accordo con la definizione data dal personaggio interpretato da Ferdinando Luppi nel già citato film di Del Toro. Già, perché in The Orphanage i fantasmi non sono eventi terribili, o meglio, ciò che li rende tali lo è (la morte, quasi sempre avvenuta in circostanze violente), ma la condizione stessa di fantasma è una liberazione o un’affermazione del proprio ego.

The Orphanage

Bayona, su una sceneggiatura di Sergio Sanchez, ha la bella idea di affrontare il filone ghost story inserendo un’idea originale, ovvero contaminarla con la favola di Peter Pan: i bambini fantasma sono un po’ come i bimbi perduti, l’aldilà è l’Isola che non c’è, un limbo in cui non si cresce mai e si può giocare tutto il giorno tutti i giorni. C’è perfino Peter Pan! Solo che invece di avere le sembianze di un atletico e sveglio ragazzino volante è un inquietante freak che cela le sue orride fattezze sotto una maschera ricavata da un sacco di iuta. Dunque, la morte è “un evento terribile” per i vivi, quei bambini tornati dall’Isola che non c’è e ormai cresciuti, ma i fantasmi, quei bimbi perduti e mai più tornati, sono lì “condannati” a giocare “all’infinito” a 1,2,3, stella e perfino capaci di abbattere le diversità che in vita li rendeva estranei tra loro.

The Orphanage

Bayona è dunque un “buono”, uno di quelli che in un periodo di torture e sangue a fiumi negli horror, come quello in cui The Orphanage uscì, predilige un tono pacato e un messaggio positivo, che utilizza simbologie disneyane per arrivare ad un finale conciliatorio e commovente…disneyano appunto. Eppure, in un’atmosfera intrisa di buoni sentimenti riesce comunque a piazzare di tanto in tanto stilettate alla milza che ci ricordano che quando si parla bambini morti in un film horror è bene essere comunque un po’ cinici e cattivelli. Così accettiamo volentieri una scena semi-splatter, qualche cadaverino cremato e twist ending una volta tanto non telefonato.

Se da una parte abbiamo alcuni elementi di piacevole novità in The Orphanage, dall’altra abbiamo una sfacciata riproposizione di tutti i cliché del moderno cinema di fantasmi europeo: magioni goticheggianti perdute nella campagna, scricchiolii sinistri, amici immaginari che poi tanto immaginari non sono, il passato che ritorna, e molto altro. La spina del diavolo e Saint Ange, Fragile e The Others, un po’ tutti i film (in prevalenza spagnoli) che hanno fatto la fortuna del genere in quegli anni e hanno ormai decretato che i bambini, soprattutto se orfani, sono degli ottimi fantasmi o prede di fantasmi.

The Orphanage

Andando poi ad analizzare il film sotto un punto di vista prettamente tecnico, c’è da rimanere pienamente soddisfatti. Le scenografie di Josep Rossell sono semplici ma inquietanti, capaci di immergere il racconto in un tempo fuori dal tempo (in che periodo è ambientata la vicenda? Nel nostro presente, ma non sembrerebbe), la fotografia di Oscar Faura è composta da perenni penombre adeguate al racconto e la regia di Juan Antonio Bayona appare molto fluida e ordinata, pur non rinunciando a movimenti di macchina virtuosistici e ricercati. A tutto ciò aggiungiamo una Belén Rueda (Mare Dentro, Il silenzio della città bianca), nel ruolo della protagonista, perfettamente calata nella parte e in alcuni momenti capace di donarci un’interpretazione davvero intensa che le è valsa molte nomination e diverse vittorie in festival cinematografici sparsi in ogni dove.

The Orphanage

Se Bayona fosse riuscito a donare un pochino di personalità in più al suo lavoro e aggiungere anche dei momenti di tensione, purtroppo assenti, The Orphanage avrebbe potuto concorrere al titolo di miglior rappresentate del corposo filone a cui appartiene (ghost story europea). Rimane comunque tra le vette più alte fino ad ora toccate.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una bellissima rielaborazione in chiave ghost-story della favola di Peter Pan.
  • Bélen Rueda, molto brava e intensa.
  • Un horror con il cuore!
  • C’è qualche cliché di troppo e mancano i veri spaventi.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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The Orphanage, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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