The Sinner, terza stagione: povero omicida!

Alla fine di marzo si è conclusa sul canale americano USA Network la terza stagione di The Sinner, la serie antologica che segue le investigazioni del detective Ambrose (Bill Pullman). Inizialmente era stata concepita come una serie autoconclusiva destinata a terminare dopo la prima stagione (ispirata al romanzo di Petra Hammesfahr), ma visto l’enorme successo altre stagioni sono state annunciate.

La prima stagione aveva una trama molto particolare, fatta di flashback, intrecci narrativi e una protagonista principale (Jessica Biel) in preda ad un’amnesia. Il mistero quindi era totale e scoprirlo una vera sfida per lo spettatore.

Le stagioni successive, per ovvi motivi, non sono riuscite a mantenere questo standard e soprattutto la seconda aveva in parte deluso le aspettative del pubblico. Probabilmente uno degli errori era stato quello di dividere l’attenzione presentando troppi elementi nella storia: il detective Ambrose per poter risolvere l’omicidio assegnatogli doveva praticamente relazionarsi con un’intera comunità di persone, conflittualità interne ad una setta e intricate questioni di affidamento minorile.

THE SINNER

Con la terza stagione invece si è tentato almeno in parte di restituire delle atmosfere tipiche della prima. I protagonisti indiscussi sono semplicemente Ambrose e il suo sospettato, tale Jamie Burns (Matt Bomer), che entrano sempre più in contrasto attraverso una relazione burrascosa.

Tutto inizia con un presunto incidente stradale, dove l’amico di Jamie rimane ucciso. Ma approfondendo sempre di più le indagini Ambrose inizia a dubitare dell’innocenza del sopravvissuto. Una intricata relazione fra i due amici inizia ad emergere, fino alla rappresentazione di un rapporto morboso fra i due, sviluppato ai tempi del college e basato su una interpretazione folle della filosofia di Nietzsche. Il detective cerca in tutti i modi di aiutare il suo sospettato, arrivando ad assecondarlo in tutto, seguendolo in nottate folli in giro per New York: tutto per cercare di capirlo e per indurlo a confessare.

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C’è un grandissimo approfondimento psicologico, e noi insieme al detective Ambrose veniamo risucchiati nel cercare di capire Jamie Burns. Il suo dramma comincia in realtà tempo prima, con l’incontro di quello che diventerà un punto di svolta nella sua vita: Nick Haas (Chris Messina). I due si conoscono al college ed è Nick a coinvolgerlo nella sua visione dell’übermensch nietzschiano: lo convince che l’unico modo per vivere davvero, per distaccarsi dalla vita posticcia in cui l’uomo moderno è invischiato, è liberarsi dalla paura e per farlo è necessario superare l’unica vera grande paura, la paura della morte.

È così che al college cominciano le loro folli sfide al limite della ragionevolezza: si tuffano in acqua in punti pericolosi, giocano con la sorte per decidere le loro azioni (una sorta di “lancio della moneta”) e si seppelliscono vivi a vicenda. Con gli anni poi, sia per casualità sia perché Jamie diventa sempre più inquietato dalle sensazioni che Nick lo obbliga a provare, i due amici si separano. Solo poco tempo prima del fantomatico incidente che causerà la morte di Nick rientreranno in contatto. Così noi insieme al detective cerchiamo di scoprire quanto quella morte fosse stata accidentale e perché Jamie, nonostante abbia una moglie affettuosa, un figlio in arrivo e un lavoro stabile, continui a essere turbato da strani pensieri.

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Scopriremo presto che è stato Jamie a indurre la morte dell’amico, e per il resto della stagione assisteremo al lento deragliamento della psiche di Jamie. Forse è questa la debolezza di questa stagione: il focus non è tanto su un’indagine, su un crimine, ma sul cercare di comprendere a fondo l’omicida. Il che, da un certo punto di vista, è sicuramente un punto di forza, poiché è sempre un piacere assistere ad un’analisi così dettagliata; d’altra parte però arriva anche un momento nel quale, per quanto l’origine di un trauma o il percorso mentale di qualcuno siano comprensibili, continuare ad assecondare con la compassione le azioni spietate di qualcuno che ormai si è dimostrato un pericolo per sé, ma soprattutto per gli altri, diventa quasi un giustificarlo. E per quanto sia importante capire questi meccanismi, soprattutto per prevenirli, arrivare a costruire questo abbraccio narrativo per il povero omicida disperato è davvero un po’ troppo.

Soprattutto quando le morti di queste persone sono del tutto dipendenti dalle scelte personali dell’assassino, non esiste confronto fra i due, solo il “sacrificio” della vittima (come se si potesse sacrificare altri che se stessi). Per questo motivo, Jamie Burns alla fine della stagione risulta essere uno dei personaggi più odiosi mai scritti e ci si arriva perfino a chiedere se la scelta di far interpretare questo assassino, con il quale avremmo dovuto entrare in empatia, ad un attore tipicamente classificato come “belloccio” non sia stata una mossa studiata: ci sarebbe piaciuto ugualmente qualcuno non canonicamente “bello”?

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Se l’intento è stato quello di nascondere un animo corrotto laddove mai ce lo saremmo potuto aspettare allora è riuscito; se invece era quello di farci capire che tutti noi possiamo cadere in basso se spinti nel modo giusto, proprio come il nostro adorato assassino, direi proprio che ha fallito.

Sicuramente questa terza stagione fa riflettere in tanti modi diversi, ma speriamo comunque in una quarta!

Silvia Biagini

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