The Stand: uno Stephen King televisivo dal sapore neo-classico

Il rinnovato interesse mediale per l’operato di Stephen King, fondamentalmente scaturito dal successo incredibile del primo capitolo della nuova trasposizione di IT, ha fatto da apripista a una serie di progetti che portano il marchio del Re del brivido e questo sta accadendo soprattutto sul piccolo schermo. Oltre ad alcuni film commissionati dalle piattaforme streaming, come Il gioco di Gerald, 1922 e Nell’erba alta, sono numerose anche le serie ad attingere dai suoi romanzi, forse il linguaggio mediale più adatto a trasportare per immagini le fluviali opere di King. Tra queste c’è un’altalena qualitativa che, bene o male, sta rispecchiando quanto già accaduto durante la precedente ondata di miniserie tratte dalle opere di King, ovvero gli anni ’90, quando faceva capolino – tra le molte – anche L’ombra dello scorpione, miniserie in 4 episodi diretta da Mick Garris e approdata sulle tv nel 1994 (da noi due anni dopo, su Italia1).

Oggi, quella stessa opera pubblicata per la prima volta nell’ormai lontano 1978 torna nuovamente sottoforma seriale, The Stand (titolo originale anche del romanzo), porta la firma creativa di Josh Boone (The New Mutants) e Benjamin Cavell (Justified, Homeland, SEAL Team), la regia di molti episodi del talentuoso Vincenzo Natali (Cube – Il cubo, Splice) e la supervisione allo script, oltre che la scrittura di alcuni episodi, dello stesso Stephen King.

I nove episodi di cui si compone The Stand riescono a trasporre in maniera abbastanza esaustiva, oltre che fedele, la complessa opera fanta-orrorifica-esistenziale di King che invece sembrava eccessivamente sacrificata nel formato da quattro episodi della precedente miniserie. Ovviamente, trattandosi di un aggiornamento narrativo a distanza di oltre 40 anni dall’originale cartaceo, alcune licenze sono state indispensabili per far si che la storia aderisse in maniera credibile alla nostra contemporaneità e, come lo stesso creatore Benjamin Cavell ha ribadito prima che The Stand esordisse su CBS All Acces (in Italia la serie è disponibile su Starz Play), l’etnia di alcuni personaggi e il loro sesso è stato modificato per rappresentare al meglio l’America odierna.

Il risultato generale è molto gradevole e riesce a rendere giustizia all’opera di King, fermo restando che l’ampiezza di respiro e la complessità del romanzo hanno subito, anche stavolta, una inevitabile condensazione nonostante le quasi 10 ore complessive di durata. Quello che si percepisce guardando The Stand è un senso di classicità nel racconto che oggi giorno le serie tv tendono a evitare, perse in sperimentazioni linguistiche e metanarrative che non sempre sono sinonimo di qualità. L’opera di Boone e Cavell, invece, sembra carpire al meglio la lezione impartita dai padri della serialità moderna (che potremmo riassumere in Lost, I Soprano, Heroes, Desperate Housewives) e adattarla alle esigenze imposte dall’operato di King. Il risultato non ha incontrato in toto il favore del pubblico odierno, che sembra aver completamente perso la memoria storica, forse perché sottoposto a una quantità di stimoli seriali effettivamente eccessiva, così The Stand ha avuto un’accoglienza abbastanza tiepida che non ha ripagato il lavoro certosino messo a punto da un team che palesemente conosceva (e amava) l’opera d’origine.

Ma facciamo un passo indietro. Cosa racconta The Stand?

Un virus dalla carica virale del 99% e della mortalità del 100% sfugge al controllo di un laboratorio e si diffonde tra la popolazione dell’America settentrionale. In gergo il virus è conosciuto come Captain Trips, è una mutazione del comune virus dell’influenza e si adatta al sistema immunitario umano, reagendo di conseguenza con delle varianti che ne rendono vano qualsiasi vaccino. Nell’arco di un mese, la popolazione mondiale viene decimata anche se esistono alcuni immuni che si raccolgono, nell’arco del tempo, in comunità. Tra questi ci sono Harold, un ragazzo disturbato che ha visto morire la sua famiglia, Frannie, compagna di scuola di Harold di cui lui è sempre stato segretamente innamorato. Poi ci sono Stu Redman, un uomo buono e gentile che intesse una relazione con Frannie suscitando la gelosia di Harold, Larry Underwood, ex musicista che si unisce in viaggio con l’ex insegnate Nadine Cross e il piccolo Joe verso la comunità di Boulder, in Colorado. Loro sono solo una parte dei sopravvissuti, molti dei quali hanno trovato accoglienza a Boulder dietro il richiamo di Madre Abigail, una potente sensitiva che sta cercando di riformare l’umanità dalle sue ceneri. Ma allo stesso tempo c’è un misterioso individuo che si fa chiamare Randal Flagg, dotato di poteri soprannaturali, che sta chiamando a sé i reietti della società, i deboli, gli psicopatici e i peggiori criminali fondando una comunità sulle macerie di Las Vegas.

Caso vuole che The Stand sia stato prodotto e trasmesso in un periodo in cui la situazione inizialmente descritta con l’avvento di Captain Trips presenta analogie con quello che stiamo vivendo nella realtà, ovvero una pandemia causata da un virus dalla carica virale molto elevata. Infatti, i primi episodi della miniserie creano un’atmosfera realmente inquietante e luttuosa, con una predilezione per il macabro e il disgusto nel mostrare le deflagranti reazioni che il virus causa in chi lo contrae. L’innesco di The Stand è efficacissimo, i primi due episodi sono di una potenza notevole, concentrati tanto sui personaggi quanto sullo spaventoso contesto. Poi, a mano a mano che la storia prosegue e si evolve, quel sentore mortifero e inquietante si affievolisce, tutto comincia ad assumere un tono sopra le righe, a tratti anche grottesco, con un ritmo incalzante da racconto avventuroso e virate di violenza da b-movie horror. Tutto perfettamente in linea con il romanzo, dunque, anche se Boone, Cavell e lo stesso King tendono giustamente ad affievolire nella serie quel tono fatalista e l’importanza religiosa che aleggiavano sull’opera originale.

Il risultato è una miniserie genuina, essenziale (dunque priva di quei fastidiosi punti morti, episodi filler di cui quasi tutte le serie sono infarcite), molto ritmata e, fondamentalmente, divertente. Quello che viene a mancare a The Stand in confronto, ad esempio, a The Outsider (altra recente miniserie kinghiana targata HBO), è quella vena autoriale che avrebbe potuto fare la differenza, quella bontà di scrittura da prodotto adulto che sarebbe riuscita ad elevarla una spanna sopra il mare magnum della serialità odierna. Invece The Stand, con i suoi personaggi archetipici, le ellissi narrative perfettamente gestite, la mancanza di un’ambiguità morale, è perfettamente in linea con il prodotto medio (di qualità) che affolla i palinsesti fai-da-te delle piattaforme streaming. E questa “normalità” tende a rendere dimenticabile un’opera che invece fa del rispetto e della genuinità i suoi maggiori pregi.

Ad elevare The Stand è sicuramente il grandioso cast di cui si compone che oltre a sfoderare alcuni volti noti del grande schermo, riserva alcune belle interpretazioni di attori meno noti. Tra i primi possiamo citare Whoopi Goldberg, perfetta nel ruolo di Madre Abigail, James Marsden (è Stu Redman), Amber Heard (Nadine Cross), Nat Wolff (è il galeotto Lloyd), Greg Kinnear (Glen Bateman), Natalie Martinez (Dayana) e in ruoli minori J.K. Simmons (Generale Starkey), Heather Graham (Rita Blakemoor) e Ezra Miller (Spazzatura).

Ma a lasciare il segno sono soprattutto Odessa Young (già vista in Arrivederci professore e Sweet Virginia) che è una Frannie Goldsmith perfetta, fragile e determinata, e Owen Teague (visto in IT e The Empty Man) che invece riesce a incarnare con efficacia l’insicurezza e l’instabilità mentale di Harold Lauder. Menzione speciale per Brad William Henke che è un Tom Cullen inedito, sicuramente lontano da quello che abbiamo sempre immaginato (fondamentalmente la sua disabilità è stata interpretata in modo differente rendendolo più goliardicamente simpatico), ma ugualmente efficace e con il quale è facile entrare in empatia. Ovviamente c’è Randal Flagg a rubare spesso la scena agli altri personaggi, che ha il volto di un iconico Alexander Skarsgård, carismatico, affascinante e con lo sguardo sufficientemente torvo da incutere timore, un’interpretazione molto fedele al Flagg kinghiano e sicuramente più riuscita di quella monocorde della miniserie di Mick Garris.

Ma in The Stand c’è anche un punto oscuro, situato proprio in coda: l’episodio 9. Di fatto, la miniserie termina con l’episodio 8, che segue gli eventi così come il lettore li conosce già, ma Stephen King ha avuto la pensata – anche giusta, da un certo punto di vista – di aggiungere del materiale inedito appositamente per la miniserie di CBS e così ha scritto di suo pugno lo script per un episodio finale che oltre a chiudere il cerchio con il già noto, aggiunge dei dettagli, fornisce delle svolte tutte nuove. Nonostante il nobilissimo intento, proprio questo finale ha quel sapore di episodio filler che fino a questo momento si era evitato e gran parte del materiale inedito appare abbastanza superfluo nell’economia narrativa generale. Insomma, non è male, sia ben inteso, ma decisamente non se ne sentiva il bisogno.

Una delle storie più ad ampio respiro dell’opera omnia kinghiana ha avuto la sua soddisfacente trasposizione che ha il sapore classico di un’opera molto vicina allo spettatore a cui fondamentalmente The Stand dovrebbe essere diretta. Non si mantiene un livello di qualità costantemente alto, ma si ha comunque la sensazione di aver assistito a un’opera coerente, che ha ritmo e sa intrattenere.

Roberto Giacomelli

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