The Visit, la recensione

Quando nel 1999 Il Sesto Senso conquistò pubblico e critica di mezzo mondo, un nuovo talento registico si presentò come novello re del brivido, il regista di origini indiane M. Night Shyamalan. Un talento confermato – se non amplificato – con l’opera seguente, lo struggente apologo del supereroe Unbreakable – Il predestinato (2000), e ridimensionato ai territori del brivido d’autore con Signs (2002) e The Village (2004). Però il buon Shyamalan, costantemente in bilico tra Hitchcock (affettuosamente omaggiato con il sottovalutato E venne il giorno) e Spielberg, negli ultimi anni non ne ha azzeccata una e se il fondo è stato toccato dal mostruoso flop dell’inguardabile L’ultimo dominatore dell’aria (2010), anche lo spot di casa Smith After Earth (2013) non ha funzionato a dovere. Il 2015 sembra essere per Shyamalan l’anno del ritorno al genere che l’ha reso famoso: prima la miniserie per la tv Wayward Pines, da lui prodotta e in parte diretta, poi il lungometraggio The Visit.

Con The Visit, il regista di Lady in the Water unisce le forze con l’uomo degli horror a basso budget, Mr. Jason Blum, che con la sua BlumHouse co-produce il film e, probabilmente, detta alcune regole che ne sono alla base. E già, perché se The Visit affronta molte tematiche care a Shyamalan, è anche vero che è figlio di tutta quella serie di film che hanno creato la fortuna della BlumHouse, a cominciare da Paranormal Activity.

I fratelli Becca e Tyler Jamison sono costretti dalla madre a passare una settimana con i nonni che non hanno mai conosciuto. Da una parte perché la mamma vuole riallacciare i rapporti con quei genitori con cui ha litigato molti anni prima, dall’altra perché vuole passare qualche giorno con il nuovo compagno senza figli tra i piedi. Nonostante l’iniziale manifestazione d’affetto e i manicaretti che prepara loro la nonna, i due ragazzini ben presto cominciano a notare dei comportamenti molto strani negli anziani, a cominciare dalla regola che proibisce loro di uscire dalla stanza dopo le nove e mezzo di sera.

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Il caratteristico stile mockumentary che ha saturato il mercato dell’horror contemporaneo proliferando soprattutto tra le produzioni BlumHouse è brillantemente sfruttato dal regista di origini indiane per raccontare una fiaba nera che racchiude tutto quell’universo di paure infantili che hanno reso caratteristico il cinema di Shyamalan. Con palesi citazioni alla favola di Hansel & Gretel, The Visit fa chiari rimandi a quel mondo favolistico raccontato con delicatezza in Lady in the Water e lo contamina con una pesante pennellata di commedia. Di base, infatti, The Visit tende a far sorridere e ci riesce, con battute e situazioni che oscillano dal grottesco al comico, in particolare affidate al talento del giovanissimo Ed Oxenbould. Ma la direzione della commedia è esplicata anche dalla scelta di affidare il ruolo della madre a una delle reginette della moderna comicità americana, Kathryn Hahn.

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Il merito di The Visit sta però nella capacità di saper cambiare registro con estrema naturalezza e ci si ritrova a ridere e subito dopo a saltare dalla poltrona dallo spavento, si percorrono vie da thriller e si sospettano implicazioni soprannaturali, perfino fantascientifiche. The Visit è un gioco, Shyamalan lo dichiara in più occasioni e si diverte a inserire dentro citazioni e scherzi verso lo spettatore che ne designano l’originalità e anche la sperimentalità. Così come è sperimentale l’uso della ripresa in soggettiva, a cui il regista non è nuovissimo (in Signs e E venne il giorno ci sono un paio di azzeccati momenti found footage), una volta tanto realmente giustificate a livello narrativo. La protagonista, infatti, è un’aspirante regista e sta realizzando un documentario che testimoni la sua vita e le sue esperienze (proprio come Shyamalan faceva da ragazzino), da qui l’invasività della ripresa che, a poco a poco, diventa testimone delle stranezze a cui i due fratelli assistono nella casa dei nonni. E questo dà modo al regista anche di utilizzare uno stile personale ben studiato: visto che il film nel film è appunto l’espressione artistica di un’aspirante regista, Shyamalan può permettersi anche inquadrature ricercate e non le classiche riprese traballanti da handycam.

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Con quei 3-4 momenti da salto sulla poltrona assicurato e una sapiente costruzione della tensione, The Visit funziona ottimamente come film di paura, ma funziona anche come puro divertissment per quel tono scanzonato da commedia giovanile che lo annette di diritto in quel filone di horror per ragazzi che andavano in particolare negli anni ’80.

Certamente non siamo ai livelli di Unbreakable o Il Sesto Senso, opere di tutt’altra caratura e impegno, ma The Visit ci dimostra finalmente che Shyamalan è ancora capace di stupire lo spettatore con colpi di scena e uno stile personale.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un film capace di cambiare registro di continuo.
  • Come commedia fa ridere, come horror spaventa.
  • Lo stile del mockumentary è una volta tanto giustificato.
  • Questo saltare da un genere all’altro non riesce a forgiare la giusta identità dell’opera.

 

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