Venezia 72. Rabin, the last day

Standing Ovation in sala per Amos Gitai, veterano della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, perennemente sconfitto, ma stavolta per lui potrebbe essere quella buona.

Rabin, The Last Day è un’esplosione di energia che colpisce lo spettatore fin dall’inizio del film, spingendolo a volerlo applaudire praticamente ad ogni scena. Un film difficile, ma che spinge lo spettatore a tenere gli occhi sempre puntati sullo schermo, nonostante i 153 minuti di durata.

Il 4 novembre del 1995, Yitzhak Rabin veniva assassinato, vittima di una cospirazione politica. Un evento che ha segnato una nazione. Il film ripercorre il processo che ha seguito il suo assassinio. Più che su una serie di dialoghi, il film è giocato su una serie di monologhi che, però, sono scritti e recitati benissimo, e quindi non annoiano mai. Man mano che va avanti, emergono sempre punti di vista interessanti, emergono piccoli colpi di scena.

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Rabin è un film originalissimo innanzitutto per lo stile, sospeso tra Rosi e Costa-Gavras, tra Lumet e La battaglia di Algeri. Al film-inchiesta l’opera mescola insieme fiction e documentario, quasi alternandoli. La convivenza tra i due filoni funziona perché, in fondo, anche la fiction diventa documentaristica e il documentario viene fictionalizzato, attraverso un montaggio preponderante che crea senso in un crescendo di tensione sempre più forte. Ogni immagine è di natura diversa e ogni frame serve a produrre senso.

Per Gitai, è un film che rappresenta un tuffo nel passato, sia per gli eventi narrati che per la ricerca di uno stile che sembrava ormai abbandonato da tempo.

Claudio Rugiero

PRO CONTRO
  • Non fa sentire il peso dei suoi 153 minuti.
  • Offre un importante spaccato storico di una nazione.
  • Ha un montaggio dinamico e coinvolgente.
  • Troppo verboso.
  • Usa un lessico talvolta sofisticato.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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