Venezia 75. Jinpa

La produzione è cinese, l’ambientazione tibetana. Parrebbe un paradosso, ma in quella parte del Mondo le cose vanno così e non c’è niente da fare.

Se ti dico il mio sogno, potresti dimenticarlo. Se nel mio sogno faccio qualcosa, forse te lo ricorderai; ma se ti coinvolgo, diventa anche il tuo, di sogno.” Con questo proverbio tibetano inizia Jinpa.

Un uomo guida un camioncino pieno di amuleti e talismani. Percorre una strada semideserta, non asfaltata. In un certo momento, prima investe una capra, poi dà un passaggio a un tale che deve raggiungere una città. Perché? Deve ammazzare un uomo. Da qui una serie di avvenimenti accadono come se dovessero e non ci fosse nessuno a causarli, un po’ come in un sogno da cui poi però ti devi svegliare, sforzo che viene richiesto a te e a nessun altro.

Jinpa ha una bella fotografia, una narrazione lineare e semplice fino a quando non dobbiamo dare una spiegazione alla moltitudine di particolari su cui il regista Pema Tseden (già autore di Temptation, The color of Death and Tharlo) vuole che ci soffermiamo; perciò a fine proiezione il confronto è inevitabile e in ciò vediamo anche il bello di un lavoro che è sì lento, alle volte, e solo in apparenza, statico, ma che conserva una gran forza motrice. E in parte fautore di questa forza è anche il montaggio, specialmente quando si tratta di elementi che riconducono alla teoria del karma – secondo cui al mondo esistono eventi positivi, negativi, che si ripetono o al contrario si spezzano – quando viene il momento di contemplare il regno animale, e trarre dei moniti di vita.  Ecco che quindi siamo costretti a ripensare la vita, e le regole che ne dettano le azioni. È giusto uccidere per mangiare, e questo lo dobbiamo imparare da come funziona il mondo animale, di cui anche noi siamo parte in causa, è giusto capire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, quando accidentalmente ammazziamo un animale.

Questo lungometraggio è illuminante dal punto di vista della sostanza: siamo stati abituati in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia a vedere molti lavori protrarsi nella narrazione, quando cioè c’è da dire qualcosa e la storia viene allungata a dismisura per ripetere concetti già espressi prima. Nel caso di Jinpa infatti, il regista cinese ha chiaramente preso ad esempio un modello occidentale di fare film, ma ha mantenuta inalterata la sostanza nella sua costruzione: una storia semplice, narrata con un paio di flashback (ecco magari il montaggio di questi poteva essere fatto un po’ meglio), un altro paio di passaggi dai colori al bianco e nero, grandi paesaggi che si alternano a dialoghi chiari e con poche parole, sulla parola la prevalenza dell’immagine. Sempre per quanto riguarda la narrazione dei personaggi, la sceneggiatura quindi, questa sembra venire direttamente da un abitante del Tibet perché è ricca di spunti sulla quotidianità, fa leva sulla tradizione, sulle credenze popolari.

A tal proposito è interessante come in così poco tempo (appena ottantasei minuti), in un tale minimalismo di dialoghi, capovolgimenti di scena, e personaggi coinvolti, il regista riesca a dare dettagli importanti di quasi tutti i tipi di personaggio che popolano il Tibet: ci sono i mendicanti (considerati alla stregua degli animali, meno importanti in altri casi), ci sono i monaci (uno in realtà), c’è un raro esempio di medio borghese (raro perché non sono i molti i partecipanti alla categoria in Tibet), i vecchi dei villaggi, le donne che abitano i villaggi.

Una pellicola completa, dunque, da non sottovalutare per l’apparente poca presenza di dettagli perché c’è tutto, basta solo tornare a guardare e non aspettarsi che tutto ci venga portato dalla produzione stessa.

Roberto Zagarese

PRO CONTRO
  • Sceneggiatura.
  • Fotografia.
  • Alternanza di commedia e drammaticità.
  • Montaggio.
  • Criptismo.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Venezia 75. Jinpa, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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